Conobbi Evangelina
Alciati alla scuola
femminile Domenico
Berti, dove si studiava
per diventare maestre.
Fu certo nella seconda
classe complementare che
ci scoprimmo l'una
all'altra, ragazzine di
tredici anni. Entrambe
facevamo piuttosto
spicco sulle altre, io
per il componimento
italiano, e lei per il
disegno. Era piccola di
statura e graziosa, ma
non fragile, sebbene
avesse mani e piedi
piccolissimi. C'era una
certa consistenza nella
sua figura,in quel suo
atteggiamento sempre
eretto, quel portar la
testa alta, e quel suo
passo risoluto, da
piccolo soldato. Aveva i
capelli fini come seta,
di un castano bruno,
molto lisci, e una
ciocca le cadeva sempre
sulla fronte. Il suo
viso era piccolo e
bianco, tutto a brevi
curve delicate e
fattezze fini. Gli occhi
non grandi avevano uno
sguardo fisso,
penetrante, insistente,
che talvolta metteva a
disagio chi era
osservato. E la sua voce
sembrava sforzarsi di
essere energica, ma
aveva dentro un leggero
tremito che conservò per
tutta la vita. Portava
la gonna e la camicetta
come tutte noi, ma
metteva spesso sotto il
colletto la cravatta
alla Vallière, come
portavano allora gli
allievi pittori, quelli
che chiamavano bohemien.
E quella cravatta, la
ciocca sulla fronte e
quella sua minuscola
mano dal pollice un po'
ricurvo che vedo ancora
tenere fermo il foglio
sulla tavoletta del
disegno, dava a noi
tutte l'impressione che
fosse un essere a parte,
un artista. Discuteva
animatamente su tutto,
era vivacissima nelle
sue osservazioni,
polemizzava senza paura,
perciò aveva la fama di
essere spregiudicata e
ardita. La verità era
che, pur così giovane,
bambina ancora, aveva
fatto e faceva dure
esperienze. Suo padre,
giovanissimo, era morto
prematuramente e sua
madre aveva dovuto
industriarsi per tirare
su le due figliuole e si
era messa ad affittare
camere e a tenere
pensione. Vedo ancora
quel grande alloggio a
un quarto piano, le cui
camere davano tutte sul
cortile, quel lungo
balcone con pochi vasi
di fiori, il corridoio
dove passava sempre
qualcuno. Era tutta
gente modesta, piccole o
vecchie attrici di
nessun valore, mediocri
ballerine o povere
canzonettiste come
usavano allora, gente di
passaggio: e tutti
potevan servire da
ottimi modelli di
osservazione per chi
aveva, come lei, fin
d'allora, un'acutezza di
osservazione
eccezionale.
Finite le complementari,
quando incominciammo la
prima classe Normale, l'Alciati
non era più fra noi.
Sapevamo che era andata
all'Accademia di Belle
Arti, a studiare sotto
il celebre pittore
Giacomo Grosso e nessuna
di noi si stupì poiché
sapevamo bene che era
un'artista e che non
avrebbe mai potuto
studiare da maestra.La
rividi tre anni dopo,
incontrandola per via,
finiti gli esami di
patente. E lei, saputo
che mi era stato
assegnato il premio
annuale che si dava alla
migliore allieva in
lettere, mi domandò
impetuosamente se non
pensavo di fare la
scrittrice. Era il mio
sogno, ma invece non
osavo confessarlo, più
timida di lei che
manifestava senza paura
le sue mire artistiche.
Aveva fatto molti
progressi e cominciava a
essere conosciuta. Erano
i più begli anni della
sua vita in cui il suo
virile ingegno si
rivelava e le avrebbe
permesso di figurare con
le sue opere migliori
nella nostra civica
Pinacoteca.
Andò a Roma a lavorare
di lena e per un poco
non seppi più nulla di
lei; quando tornò era,
si può dire, celebre.
Evangelina Alciati
dovette sopportare nella
vita il più doloroso
colpo che a un cuore di
donna possa toccare: suo
figlio, Gabriele
Boccalatte, che
manifestava ingegno e
gusto, perì tragicamente
vittima della sua
passione per la
montagna. Era un
rocciatore celebre e
amato da tutti gli
alpinisti. E così
giovane ancora, appena
sposato e padre di un
tenero bambino. Ella
cercò conforto
nell'arte, nel lavoro,
nei libri. Leggeva
molto, quando eravamo
insieme parlavamo sempre
di libri, poiché ella
s'intendeva più di
letteratura di quanto io
m'intendessi di pittura,
e i suoi giudizi erano
sempre acuti, precisi,
intelligenti. Amava
infinitamente la natura,
il paesaggio; penso che
negli ultimi tempi abbia
sostato molto alla
vetrata del suo grande
studio, da cui si vedeva
il Po, la collina e
tanto cielo... Mirabili
immagini, da cui dovette
essere ben doloroso per
lei staccarsi
nell'ultimo addio.
Carola Prosperi
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