L’Etna e il suo Santo

 

di Marinella Fiume

 

 

 

 

 

  Era stato collocato in piazza Castrogiovanni, proprio di fronte all’Etna,  il giorno in cui la colata lavica sembrava minacciare l’abitato di Linguaglossa, l’ultimo giorno di un ottobre indimenticabile dell’anno del Signore 2002, in cui il vulcano aveva divorato le strutture sciistiche e alberghiere di Piano Provenzana e ingoiato un pezzo di quella pineta Regabo (dall’arabo: bosco) che era fonte di sostentamento ed orgoglio degli abitanti. Solo dopo pochi giorni, il 5 novembre, lo stesso corteo di fedeli, una moltitudine, ha riportato il fercolo in stile neoclassico con la statua lignea di Sant’Egidio Abate nella sua Chiesa, la più antica di Linguaglossa, risalente all’epoca angioina, che conserva ancora il portale gotico con la figura allegorica della Sirena con due Serpenti, il vecchio stemma di Linguaglossa, secondo qualcuno.

 Le mura del paese sono rimaste integre, le chiese svettano ancora i loro campanili, nessuna scuola e nessun edificio pubblico ha subito danni. La sua storia non mente: fu una delle 42 città demaniali, “città del re”, in Val Demone, ed ebbe l’appellativo regale di “Urbs integra”, a dispetto del suo stesso nome, costituito, secondo un documento del 1759 redatto dallo storico Vinci, dal latino “lingua” e  dal greco “glossa”, toponimo tautologico che, secondo alcuni, indicherebbe in senso figurato le “lingue” di lava della città cresciuta attorno ai primi pagliai dei resinatori genovesi e lombardi che la fondarono provenienti da Castiglione, edificandola sopra sette colate laviche, per praticarvi l’estrazione della resina dai grossi tronchi di pini.

 Più volte distrutta in epoca storica, documenti e leggende rievocano il violentissimo terremoto avvenuto all’alba del 4 febbraio del 1169, che fece sussultare tutta l’isola e decimò i Catanesi, tra cui lo stesso Vescovo di Catania. E l’altro, rovinoso, con la terribile eruzione dello stesso secolo o del 1200. Anche allora, ad alcuni popolani apparve Sant’Egidio, con gli abiti pontificali e la mitra in testa, e fermò il fuoco col bastone pastorale, il suo emblema, e gli impose questa legge: - Tu non varcherai questo limite, né oserai toccare la città che mi è stata affidata! Così disse, e da allora, ogni anno, il primo di Settembre, i valligiani fanno una gran festa al loro Santo Patrono.

  

Foto: Saro di Bartolo 

 

 Il suo Santo ha ripetuto nuovamente il miracolo. La leggenda cristiana si ripete, si affastella sulle altre leggende, e sui miti pagani raccolti dal suo maggiore storico, antropologo e poeta del Novecento, il linguaglossese Santo Calì, si aggiunge al “magico catasto” etneo, secondo la fortunata definizione di Maria Corti. Una di queste è affrescata in un dipinto della Chiesa di Sant’Egidio. Quella che vuole che, in tempi remoti, nel corso dell’ennesima colata che aveva raggiunto le porte della cittadina, tutti gli abitanti evacuarono il paese portando in salvo poche povere cose. Restò soltanto una vecchina paralitica, che non aveva che la sua fede da opporre alla piena di lava incandescente che bruciava già le prime case. Nel colmo della disperazione, la vecchietta invocò Sant’Egidio che le apparve e le diede il suo bastone dicendole: “Non avere paura, prendi questo bastone, appoggiati ad esso e alzati, vai davanti alla lava che scende, tocca le pietre infuocate con questo bastone, piantalo sulla terra incandescente e vedrai che la lava si fermerà.”. La vecchietta obbedì ai comandi del Santo, prese il bastone, si alzò miracolosamente, fermò il torrente di lava, salvò se stessa e la città. Era il 1566, dice la tradizione, ma  non si contano le volte che gli abitanti di Linguaglossa, ad ogni pericolosa colata che minaccia la città, ripetono il rito: portano il fercolo fuori le porte sulla prima linea del fuoco, prendono il bastone del Santo e lo piantano in una zolla di terra bruna. Lo stesso accadde per la colata del 1923. Lo stesso si ripete anche per quest’ultima colata.

 Jacopo da Voragine, nella sua “Leggenda aurea”, vuole il Santo di origine greca, nato ad Atene da stirpe regale, e narra che, fin dall’infanzia, fu istruito nei sacri testi. Un giorno, mentre si recava in chiesa, un malato sdraiato in piazza gli chiese l’elemosina ed egli gli fece dono del proprio mantello, indossato il quale, l’infermo guarì. Un’altra volta, mentre tornava dalla chiesa, risanò con la preghiera un uomo che era stato morso da un serpente velenoso e ancora liberò un ossesso che disturbava i fedeli durante le funzioni religiose, placò le onde del mare che rischiavano di far naufragare dei marinai,  guarì, ad Arles, una donna che soffriva di febbri da tre anni e, a Nimes, risuscitò il figlio del principe della città, mancato poco prima. Sarebbe morto “all’incirca nell’anno 700” e “molti affermarono di aver udito il canto degli angeli che trasportavano in cielo l’anima di Egidio”. Secondo Paul Viard, che utilizza fonti agiografiche latine e francesi, la  biografia del santo è dai contorni sfumati e incerti, né è possibile determinare l’epoca nella quale visse. Sarebbe identificato da alcuni con l’abate Egidio, inviato a Roma presso papa Simmaco da S. Cesario di Arles nel sec. VI,  secondo altri, sarebbe vissuto al tempo del re goto Wamba, che esercitò la sua attività verso il 673, per altri ancora, nell’ottavo secolo ponendo la sua morte nel 740 o tra il 720 e il 725.

 Le nostre leggende popolari etnee lo identificano ora con un Papa, ora con un Vescovo, tutte con un Abate e, in una “Vita del Santo” di Francesco Ragonesi, stampata agli inizi del Novecento, si legge che era ateniese e che fu elevato a custode della città nel 1669.

 Il centro del culto di Saint Gilles è la Provenza, dove sarebbe stata ritrovata, in un’antica abbazia presso Nimes, la sua tomba risalente all’epoca merovingia, ma che conserva un’iscrizione del sec. X, lo stesso in cui è stata composta la sua “Vita” prodigiosa, fondata su una cronologia fantastica. Da sempre il suo nome, venerato in Francia, in Belgio e in Olanda, è invocato contro i tremori,  i deliri della paura,  della febbre e della follia, in alcuni luoghi contro i terremoti. Tra i vari episodi della vita del Santo si annovera quello illustrato dalle due vetrate e da una scultura del portale della cattedrale di Chartres, in cui è raffigurato  mentre celebra la Messa e confessa l’imperatore Carlo Magno di un peccato che egli non osava confessare a nessuno. Il suo emblema è anche la cerva, da una leggenda molto popolare, pervenuta in varie versioni, secondo cui questa sarebbe stata inviata da Dio per portare il latte al pio eremita che viveva solitario in un fitto bosco, ma sarebbe stata inseguita dal re in persona durante una battuta di caccia e, rifugiatasi impaurita ai piedi del Santo, avrebbe schivato la freccia del re, che invece colpiva di striscio Egidio. Per farsi perdonare, il re gli fece dono di tutto quel territorio pieno di boschi tra i quali il Santo costruiva un’abbazia di monaci. Egli è associato talvolta a S. Lupo, Vescovo di Sens, iscritto nel “Martirologio Romano” lo stesso giorno, ossia il 1° settembre.

  Miti pagani e leggende cristiane, dicevamo. E così, l’etimologia del nome Egidio, il nome del santo abate ateniese, è facilmente associabile al greco Aigeìdes, “Figlio di Egeo”, “Discendente da Egeo” o “Nato sull’Egeo”, da Aigaîos, Egeo, nome del mare greco ed epiteto dello stesso Posidone, mentre aìgeios significa “caprino”, “di pelle di capra”, e il nome Egeo si ricollega al culto ateniese della “capra”, così come “l’egida” era la magica sacca di pelle di capra contenente una serpe e protetta dalla maschera della Gorgonie, che apparteneva ad Atena. Tra le diverse fonti mitografiche e le varie versioni  ricostruite da Robert Graves (I miti greci), seguiamo quella nella quale il mito di Egeo, re di Atene e padre di Teseo trae origine da una interdizione, a tutta prima incomprensibile, fattagli dall’oracolo delfico di Apollo a cui si era rivolto poiché non poteva avere figli: “Tieni chiuso il tuo otre di vino finché non avrai raggiunto il punto più alto della città di Atene”. Ed ecco apparire il motivo dell’otre caprino contenente il vino. Cominciano da lì le sue peripezie che lo condurranno, attraverso una lunga serie di viaggi, a Corinto, poi a Trezene, dove ricompare il motivo del vino nell’episodio in cui il re della città lo fa ubriacare per farlo accoppiare con sua figlia Etra, e di nuovo verso Atene, lungo il cui percorso Egeo smuove e solleva una gigantesca roccia per nascondervi i segni che il figlio concepito da Etra dovrà riportargli ad Atene perché egli lo riconosca come suo figlio. Fa qui la sua comparsa il motivo tellurico dello scuotimento del macigno. A 16 anni, Teseo smuove la roccia, prende i segni, riceve la rivelazione dalla madre e intraprende, costeggiando l’Istmo di Corinto, la strada per l’Attica, si sottopone a una serie di prove e libera l’Attica dei suoi mostri. Ma ad Atene il padre, che intanto si è sposato con Medea e ne ha avuto un figlio, tenta di avvelenarlo con una coppa di vino, senonchè, mentre il figlio lo sta bevendo, il padre lo riconosce dalla spada, caccia Medea e Medos e lo proclama legittimo erede. Da qui si origina il mito di Teseo, le sue peregrinazioni per mare, la sua spedizione per uccidere il cretese Minotauro, la caduta di Egeo nel mare che prende il suo nome, l’intreccio con il mito di Eracle, che egli curò in un accesso di follia durante il quale aveva ucciso la moglie e sei dei suoi figli, la sua discesa negli Inferi, la sua caduta in mare dalle coste dell’isola di Sciro, la sua tomba divenuta asilo per gli schiavi, i fuggitivi, gli oppressi. Creta e Micene, dunque, i centri più importanti delle coste del Mediterraneo, un mare al centro di continenti da sempre squassati dai “mostri” dei cataclismi geologici, terremoti ed eruzioni. E quando Micene cadde, la popolazione si riversò sulla terraferma, portando con sé l’arte della coltivazione del vino che trovò nuove vie di diffusione. Solo nel V sec. le monete testimoniano le origini antichissime del vino dell’Etna, ma il mito narra di tempi assai più lontani di quando i coloni greci, giunti nella più grande isola del Mediterraneo, sbarcati a Naxos, si dedicarono professionalmente alla cultura della vite e chiamarono Enotria l’Italia, la terra della vite. Se il primato nella storia del vino in Sicilia spetta ai Fenici che introdussero la bevanda in tutto il Mediterraneo, il ritrovamento di viti dette “ampelidi”, scoperte alle falde dell’Etna, dimostra la presenza della vite selvatica tra la flora mediterranea già nell’era terziaria. Con l’VIII sec., piuttosto, la cultura enoica siciliana si sviluppò notevolmente ed accrebbe la sua importanza in alcune zone in epoca romana e, dopo le invasioni barbariche, in epoca bizantina; in seguito, con Carlo Magno, il vino conobbe un nuovo impulso, non a caso gli si attribuiscono le parole: “Fecit ecclesias et planavit vineas”, e i limiti geografici della viticoltura corrispondevano praticamente alle frontiere della cristianità.

 La trasformazione dei contenuti simbolici della vite dal mondo pagano al mondo cristiano rivela la persistenza dell’universo economico-sociale e simbolico, infatti, con la caduta dell’Impero Romano, lo sfacelo politico e le scorribande barbariche determinarono all’inizio l’abbandono, la devastazione, il saccheggio e l’esodo dalle campagne. I contadini cercavano rifugio nei monasteri ove si continuava a coltivare la vite per trarne l’elemento essenziale dell’ultima cena, sicchè fu proprio la religione cristiana, la cui simbologia insiste particolarmente sul significato del vino-sangue di Cristo e della vite-croce, a rappresentare l’argine per la conservazione del vino: i monaci insegnavano le tecniche di coltivazione e di vinificazione e, se l’Abate era il punto di riferimento per la vita agricola, il Vescovo lo era nella società cittadina al fine di potere continuare la ritualità della somministrazione del vino alla comunità dei fedeli. La vigna venne difesa da recinti, le municipalità lo ordinavano per le feste e le cerimonie, nascevano i mercanti  per la sua vendita.

 È difficile trovare un luogo dove lo sposalizio tra caratteri del terreno e condizioni ambientali sia più fortunato delle plaghe vulcaniche nei pressi di Linguaglossa, patria del rinomato vino DOC Rosso dell’Etna, il cui paesaggio, col suo panorama meraviglioso tra il vulcano e il mare Jonio, col suo porto, è caratterizzato dai tipici terrazzamenti e dalle colture viticole, dai muretti di pietra lavica, dalle torrette, dalle stesse caratteristiche dell’edilizia rurale, dalla  presenza di edifici anche piccoli completi di palmenti e cantine. Così come è difficile trovare un Santo che, meglio di Egidio, sia posto a protettore di queste contrade. Si tratta, infatti, come abbiamo visto, di un Santo di lunghissima durata, che rappresenta la lotta che l’uomo ha dovuto affrontare sin dal suo apparire sulla terra contro i mostri naturali che gli contendevano spazio vitale: la lotta della “cultura” contro la “natura”, dell’eroica contesa per sottrarre, conservare e proteggere spazi antropizzati. Così Egidio, miracoloso protettore dei confini di pertinenza umana, reca con sé l’evoluzione della diffusione culturale della vite nel Mediterraneo e il suo “dionisiaco” bastone rappresenta l’albero della vite, con il quale egli segna la “linea della vite”, inaggredibile dal fuoco e dalla lava; è l’abate che seppe conservarne e trasmetterne la cultura e la tradizione all’interno del monastero e fuori; il Santo, infine, che sa come usare il potere antidepressivo dell’alcool etilico davanti alle calamità naturali dei terremoti e delle colate quando minacciano di devastare il corpo e la psiche degli impotenti abitanti.

 Anche la mistica e veggente badessa Santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), definita “l’erborista di Dio” (Ellen Breindl), apprezzava particolarmente il potere terapeutico della vite e del vino e guariva le febbri alte, quartana e terzana, con del vino nel quale era stato fatto bollire del basilico, e l’insonnia e gli incubi notturni con il vino nel quale era stata messa della betonica (Betonica Officinalis L.) e il tremore con il vino tiepido nel quale era stata messa la radice di curcuma  e la malinconia e gli stati depressivi con il vino caldo nel quale era stata messa a bollire la radice del gigaro (Arum maculatum L.).

 La vite, insomma, simbolo della natura umanizzata, e il vino, rimedio principe per esorcizzare la paura della distruzione, della morte e della discesa agli Inferi, cui alluderebbe anche quello strano “stemma” della città con la raffigurazione della Sirena e dei serpenti nel portale della Chiesa di S. Egidio a Linguaglossa.