Sarei forse più sola
Senza la mia solitudine.
Sono abituata al mio destino.
Forse l’altra-la pace-
Potrebbe spezzare il buio
E riempire la stanza-
Troppo stretta per contenere
Il suo sacramento.
La speranza non mi è amica-
Come un’intrusa potrebbe
Profanare questo luogo di dolore-
Con la sua dolce corte.
Potrebbe essere più facile
Affondare - in vista della terra-
Che giungere alla mia limpida penisola
Per morire-di piacere.
(1862)
Emily Elizabeth Dickinson, poetessa tra le più grandi dell’Ottocento
americano e, con Saffo, probabilmente la più grande mai esistita, figlia di un
facoltoso avvocato, nacque ad Amherst, nel Massachusetts, nel 1830.
Come tutte le ragazze di buona famiglia ricevette un’ottima
educazione, libera e completa per l’epoca puritana in cui visse, sostenuta da
un suo innato spirito critico e da indipendenza intellettuale ma, a trentadue
anni, per motivi tuttora non chiari, certamente non legati a motivi familiari o
ad un’invalidità fisica o a disprezzo per gli altri e per il mondo esterno
oppure ad un amore disperato, come aveva preannunciato in una lettera, Non
me ne vado più di casa, si chiuse definitivamente in casa, votandosi ad
una vita solitaria e silenziosa, mantenendo i contatti solo con pochi amici,
comunicando con i familiari a porta socchiusa, e col mondo esterno solo
attraverso le sue lettere, vestendo perennemente di bianco, come una sposa.
C’era stato un amore infelice nella sua vita, uno dei suoi
tanti amori nascosti, quello per il pastore quarantunenne, sposato e con figli,
Charles Wadsworth, l’amico più caro, al quale molte poesie aveva dedicato, ma
sembra da escludere che l’esperienza dolorosa dell’amore infelice possa
essere stato la causa della sua definitiva scelta di segregazione, potrebbe
averla incoraggiata, ma non determinata, anche perché numerose lettere e poesie
del 1862, successive alla fine dell’affettuoso legame, indicano che il dolore
si era lenito ed il dispiacere era stato superato.
Probabilmente l’isolamento volontario fu una scelta di
Emily dettata dal bisogno assoluto di introspezione, di profonda concentrazione
in se stessa, di consacrare definitivamente la sua anima alla poesia giacché,
come molti suoi versi testimoniano, l’unico mondo che le interessasse era
quello interiore, eppure, e qui risiede il fascino dei suoi versi, alla
trascendenza del suo mondo poetico corrispondono immagini concrete, dove sono
continuamente presenti sia l’elemento spirituale che quello oggettuale, il
cosmo ed il piccolo mondo domestico, l’assoluto ed il relativo.
Emily, sola al centro di un mistero, il Mistero, con i sensi
affinati e potenziati, con la vista, con l’udito, col tatto, ne coglieva i
segnali: la luce particolare di un pomeriggio d’inverno, la linea di uno
stelo, un pettirosso tra i rami, il bisbiglio dell’ape, l’arcobaleno
multicolore contro il cielo d’un tenero azzurro. E scriveva, scriveva, seduta
dietro al suo scrittoio componeva versi enigmatici, allusivi, sfuggenti, a
tratti oscuri, versi sulla solitudine, sull’amore, sulla morte, sulla natura,
descrivendo boschi, ruscelli, uccelli, prati, talvolta anche elementi mai visti
nella realtà, come molti degli animali e dei fiori che conosceva solo
attraverso le illustrazioni dei suoi libri.
Ad Emily non interessava pubblicare (infatti, in vita, e
senza il suo nome, solo sette poesie furono pubblicate), soltanto esprimersi per
liberare le profonde emozioni che, pur vivendo in assoluta reclusione, sentiva
in profondità, ma, dopo la sua morte, avvenuta nel 1886, furono ritrovate in un
cofanetto 1775 poesie raccolte in fascicoletti, rilegate con cura, che
testimoniano per intero l’intensa esperienza umana da lei vissuta: la scelta
estrema di solitudine.
Francesca Santucci
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