XIV)
E
se mi devi amare per null’altro sia
che
per amore. Non dire "L’amo per il
suo
sorriso, il suo sguardo, il modo
gentile
di parlare, per le sue idee
che
si accordano alle mie e che un giorno
mi
resero sereno". Queste cose possono
Amato,
in sé mutare o mutare per te.
Così
fatto un amore può disfarsi.
E
ancora non amarmi per la pietà che
le
mie guance asciuga. Può scordare
il
pianto chi ebbe a lungo il tuo
conforto,
e perdere così il tuo amore.
Ma
amami solo per amore dell’amore,
che
cresca in te, in un’eternità d’amore!
I
love your verses with all my heart, dear miss Barrett…Era
il 10 gennaio del 1845 quando il poeta Robert Browning scrisse la prima
ardente lettera nella quale dichiarava tutta la sua ammirazione ad
Elizabeth Barrett, la poetessa inglese definita in patria la Shakespeare
al femminile. Cominciò così la loro romantica storia d’amore, che
sembra uscire direttamente dalle pagine di un romanzo ottocentesco, con la
corrispondenza durata un anno, il padre ostile e severo, il matrimonio
celebrato segretamente, la fuga in Italia, la nascita del figlio.
Fino ad allora, per circa quarant’anni, la vita di Elizabeth, in seguito
ad una caduta da cavallo, alla tragica morte per annegamento del fratello,
ad una malattia di cui mai ben chiarite furono le cause, forse fisiche,
forse psicologiche, era trascorsa in modo grigio ed immobile, sotto la
tirannia paterna, in una strana dimora fiabesca, fra pareti silenziose, in
una stanza buia dalle imposte ben serrate, tra medicine e libri
impolverati, con la sola compagnia dell’inseparabile cagnolino Flush e
dell’appassionato bisogno di leggere e studiare, curiosamente
incoraggiato e consentito dall’austero padre.
Quando giunse quella prima lettera fu come un’esplosione di luce in
quella casa tetra, in quella stanza buia, in quel cuore avvezzo
all’ombra e alla solitudine: la passione s’innescò e brillò fino ad
esplodere, e così la poetessa ammalata, famosa eppure chiusa nel cerchio
del suo isolamento, uscì alla luce e assaporò la felicità inattesa ed
improvvisa.
Si sposarono segretamente Elizabeth e Robert, poi fuggirono in Italia e si
stabilirono a Pisa. Trascorsero insieme 15 anni, in splendida armonia,
quasi sempre a Firenze dove poi si erano trasferiti, scrivendo entrambi,
lei prendendo molto a cuore la causa indipendentista italiana e componendo
diverse poesie in tema, con il proposito di far conoscere anche nella sua
terra d’origine la situazione italiana.
Morì a Firenze nel 1861 e fu seppellita con tutti gli onori nel cimitero
degli inglesi, dove ancora riposa.
Scrisse molto Elizabeth, cominciando addirittura ad 8 anni, pubblicando
per la prima volta a 13 e collaborando a riviste e circoli letterari;
scrisse ballate, poesie ispirate al quotidiano, componimenti appassionati,
con i quali voleva incidere sui costumi sociali del tempo, e d’impegno
sociale, contro l’oppressione straniera in Italia, in un bisogno intimo
di espressione, di comunicazione, di denuncia, ma i suoi versi più belli
restano quelli dedicati al suo amore per Robert.
Vale davvero la pena leggere e rileggere i suoi Sonetti
dal portoghese
(così chiamati forse perché portoghese era il poeta cinquecentista a lei
tanto caro ), scritti parallelamente alle lettere scambiate con Robert
(che chiamò poi sempre la moglie my little portuguese)
e da lei conservati fin dopo il matrimonio, versi d’amore intensi e
rivoluzionari, perché per la prima volta la donna diveniva in poesia
soggetto attivo e dominante e l’uomo era trasformato in oggetto
d’amore al quale indirizzare con audacia le pulsioni e i desideri, e di
fronte al quale affermare e rivendicare il proprio diritto all’amore.
Con un linguaggio colto eppure semplice, che ben coniuga eleganza e
raffinatezza, in preziosa alchimia di classicità e suggestioni
romantiche, i versi di Elizabeth esprimono al meglio ancora oggi
l’immaginario femminile, riuscendo a trasmettere con intatta efficacia i
desideri che pulsano nei cuori delle donne e l’amore che sbocciò nel
suo cuore oppresso dalla lunga solitudine.
(
pubblicato sulla rivista di letteratura ed arte
"Eventual-mente", gennaio/aprile 2002)
Francesca Santucci
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