2
Faccende di cuore
Le faccende di cuore ad
Elena erano sempre sembrate molto complicate, ora poi le apparivano
addirittura pericolose ed assolutamente da evitare. I suoi genitori, ad
esempio. Si erano conosciuti poco più che ragazzi, appena diventati
maggiorenni si erano sposati. Dopo qualche anno era nata lei. Dopo un
altro brandello di anni suo padre era sparito. - Non c’era nemmeno prima
- diceva la mamma a chi talvolta la compiangeva - Non c’è mai stato
realmente e quindi non abbiamo nulla da rimpiangere. Anzi, in questo modo
le cose sono più chiare.- Elena ricordava pochissimo
di suo padre, ed i ricordi che le erano rimasti non si potevano dire
piacevoli, perché vi si mescolava sempre una sensazione di inquietudine e
di paura. Non che lui le avesse mai
fatto nulla di veramente terribile, solo qualche schiaffo e qualche urlo,
e nemmeno troppo spesso. Ma sempre senza motivo. Punizioni, colpe,
castighi ed ammende arrivavano come da un magistrato lontano, da un potere
assoluto ed oscuro, fuori dalla sua logica e dalla sua vita di bambina.
Quasi certamente il motivo di questo comportamento, pensava Elena ora che
si era fatta più grande, stava dentro di lui, suo padre, piuttosto che
essere provocato dai propri comportamenti. Un uomo così giovane e
sempre così scontento, così annoiato. Steso a sonnecchiare sul divano, non
amava giocare, passeggiare, guardare la televisione, ascoltare le canzoni,
e nemmeno disegnare oppure suonare il flauto e la chitarra come la mamma.
Non amava neppure i suoi giornali. Ogni tanto ne acquistava un fascio, li
portava a casa in fretta per non spiegazzarli, li posava in bella vista,
ma poi non li leggeva. Li accatastava in camera di Elena, impilati alti
come una torre, come una parete di carta un poco grigia, un poco colorata.
Ma impediva ad Elena di toccarli, anche quelli illustrati, e di
sfogliarli, anche quelli ormai vecchi, il cui fruscio leggero piaceva
tanto alla bambina piccola. - Non può leggere
perché è stanco. Il suo lavoro è più stressante del mio. - aveva detto per
un po’ la mamma. Ed Elena si era abituata ad essere autonoma e a non
disturbarlo. Poi però il papà
aveva cominciato a sgridarla ed a lamentarsi per altri motivi: - La
bambina non sta mai con me. Fa i suoi giochi, i suoi disegni, in camera
sua, e non viene a cercarmi, né a parlarmi. Come se io non esistessi, se
non contassi nulla. Chi sono io, eh? Nessuno? Scommetto che sei proprio tu
a metterla contro di me! - gridava alla mamma. Elena non capiva molto bene il significato di
questi rimproveri, che tuttavia, certe volte, le facevano temere di essere
cattiva. Allora chiedeva alla mamma: - Mamma, sono cattiva io? - e la
mamma rispondeva di no. Altre volte la mamma le
diceva: - Elena, al sabato, anche se io sono a scuola, tu potresti andare
a passeggio, o ai giardini, a giocare un po’ con il papà.- - Non posso, mamma. -
rispondeva Elena. - Perché? -
- Perché il papà dorme, al
sabato. Oppure telefona a qualcuno, qualcuno grande. Ed io non posso mica
disturbarlo, non posso fargli perdere tempo. - Una volta che il papà
aveva origliato questo scambio di battute tra la bambina e la mamma: - E’
una bugiarda! - aveva urlato con espressione minacciosa e con gli occhi
fuori dalle orbite. Elena sapeva di non avere
detto una bugia. Però se papà le diceva bugiarda, pensò, si vede che un
poco, un pochino soltanto, ma lei era davvero una bambina cattiva. E
tacque, impaurita e insicura. Così la discussione non ebbe seguito. Un
seguito di parole, almeno, perché poi invece, nei fatti, la mamma si diede
molto da fare a inventare cose nuove. Organizzò gite e serate in cui
vedere tutti e tre lo stesso film. Insegnò ad Elena a disegnare omini,
casette e fiori per regalarli a papà quando rientrava a casa. Comperò
giochi da tavola, flauti dolci facili da imparare a suonare, cassette di
brevi storielle in inglese: tutte cose con le quali la bambina e il papà
avrebbero potuto trascorrere tranquillamente del tempo insieme mentre lei
sistemava la casa o nei lunghissimi sabati mattina in cui si trovava a
scuola. Elena aveva accettato
felice quel cambiamento, come in genere le capitava per tutte le proposte
che venivano dalla mamma. Con il papà, invece, il nuovo corso non aveva
avuto successo. Egli quasi immediatamente aveva cominciato a lamentarsi:
tutte quelle novità non gli lasciavano più un briciolo di tempo per sé,
nemmeno al sabato e alla domenica, come sarebbe stato giusto. Non poteva
nemmeno più leggere i giornali. - Quelli, in verità, non
li hai mai letti molto.- aveva ribattuto la mamma. Ma lui aveva cambiato
discorso: - La bambina ha sempre un sacco di esigenze, è iperattiva. Non
fa che interpellarmi, chiedermi, invitarmi. Avrà ereditato qualcosa di
sbagliato da te. Sicuramente. Anche tu sei iperattiva, pensi solo alla
scuola, alla pittura, alla carriera. Con il tuo modo di fare le avrai
certamente trasmesso delle turbe.- - Cosa sono le turbe? -
aveva chiesto Elena alla mamma. - Delle macchine
velocissime, come il vento. Delle macchine che hanno un dispositivo che si
chiama turbo! - le aveva risposto la mamma ridendo e scuotendo la testa. - Ma io non ho macchine. -
- Perché sei ancora
piccola. Ma quando sarai grande prenderai la patente e le avrai.
Velocissime.- aveva concluso, sempre ridendo, la mamma. Un bel sabato mattina,
c’era il sole, l’aria era pulita, la primavera era ormai avanzata, Elena
era uscita a passeggio insieme a suo padre. Mentre si dirigevano verso il
chiosco del giornalaio avevano incontrato un collega di lui, ed erano
entrati in un bar. - La bambina prende un
gelato? - aveva chiesto quel signore. - Tu prendi un gelato,
vero? - aveva incalzato il papà, rivolgendosi alla bambina. - Veramente, io...Non
vorrei il gelato.- aveva risposto Elena. La mamma non le aveva sempre
detto che era meglio non mangiare gelati, la mattina? Poteva venirti mal
di stomaco, mal di pancia, oppure, se l’ora di pranzo era già molto
vicina, potevi guastarti l’appetito. Elena non rifiutava per scortesia, ma
per obbedienza. Eppure...PAM! Improvviso
si abbatté su di lei un fortissimo manrovescio: - Maleducata! E’ così che
si risponde? Te la insegno io l’educazione visto che finora tua madre non
l’ha fatto!- l’aggredì il papà strattonandola un poco. Il signore imbarazzato
andò sulla porta del bar a guardare le macchine che passavano lente per
strada. Elena non pianse e non protestò. Benché fosse ancora piccola non
le piaceva dare spettacolo di sé. Anche all’asilo i bambini che piangevano
venivano presi in giro. Non bisognava mai farsi vedere piangere e
singhiozzare, da nessuno. Da quel giorno però
incominciò a prendere forma dentro di lei una paura strana, una paura
ingiusta per una bambina, la paura del proprio padre. Da quel giorno si
abituò a vivere come se il genitore fosse un ospite di passaggio, uno
strano personaggio ed un imprevedibile inquilino, qualcuno a cui talvolta
bisognava far posto, che sempre bisognava trattare con rispetto e con
distacco, qualcuno, soprattutto, che non doveva essere né disturbato, né
irritato. Mai. La cosa apparentemente non
costò fatica alla bambina, e nemmeno durò a lungo. Un paio di mesi dopo
l’episodio del gelato, infatti, il papà cominciò a tornare a casa solo
saltuariamente. Per motivi di lavoro, disse. La mamma gli preparava con
cura ordinatissime valigie e, nelle serate in cui egli era assente,
insegnava ad Elena a cantare. Accompagnandosi con la chitarra ripescava
nella memoria le vecchie canzoni dei falò di quando era ragazzina, una
miscellanea strana di nenie popolari, di canti alpini e di canti
partigiani. Ad Elena piacevano queste serate in cui era permesso fare
baccano, e le piacevano quei canti strani, delle vere canzoni da grandi,
così diverse dalle canzoncine cantilenanti dell’asilo. Trascorsero altri due
mesi, o forse tre, ed il papà non ritornò più, neppure di rado. Con lui
sparirono le valigie stracolme da disfare e rifare in fretta, le torri
grigie dei giornali accatastati nella camera di Elena, i gelati
obbligatori del sabato mattina. Seppero poi che si era
trasferito in un’altra città. Così le belle serate canore proseguirono
senza interruzioni e senza sensi di colpa. Ora qualche volta il padre
le telefonava, qualche altra Elena se lo trovava all’improvviso davanti
alla scuola. In quest’ultimo caso l’uomo non perdeva mai l’opportunità di
rivolgersi a quanti salutavano la ragazzina, dicendo: - Sono il padre.
Sono venuto per accompagnarla a casa.- Assumeva in queste occasioni
un’aria umile e benevolente verso tutti, anche verso Elena: - Per me è molto
importante che tu faccia bella figura.- Elena gli raccontava cose
indifferenti e prive di importanza: cenni sulla scuola e sui passatempi,
notizie di conoscenti, fatti letti sui giornali. Qualsiasi cosa, insomma,
che non fosse suscettibile di scatenare rimproveri o di innescare
discussioni. Il padre le si affiancava
con passo giovanile lungo tutta la strada, fin sotto casa. Spesso
raccontava: - Sai, ci sono ragazze di vent’anni, poco più grandi di te,
che mi fanno la corte. Potrei averne quante ne voglio.- Allora Elena riviveva
l’ultima volta in cui lo aveva visto in casa, i suoi occhi grigi duri e
freddi e taglienti come lame, gelidi per l’odio e la rabbia. Qualcosa che
era andato storto nella preparazione delle valigie. Sulle labbra un
sorriso di scherno. La mamma senza parole e l’uomo che usciva sbattendo la
porta, per poi scendere le scale spavaldo, senza fretta, fischiettando.
Finché il portone del condominio si era chiuso e si era fatto finalmente
silenzio. Ricordava quanto fosse stato tremendo ed inconfessabile avere
paura.
|