Giugno 1799
'A signora 'onna
Lionora
che cantava 'ncopp'
'o triato,
mo' abballa mmiez'
'o Mercato.
Viva 'o papa santo
ch'ha mannato 'e
cannuncine
pe' caccià li
giacubine.
Viva 'a forca 'e
Mastu Dunato!
Sant'Antonio sia
priato!
Questa macabra satira napoletana fu scritta per la marchesa Eleonora De
Fonseca Pimentel, noto e tragico personaggio storico, che partecipò alla
rivoluzione napoletana antiborbonica del 1799, salendo sul patibolo
insieme ad altri rivoluzionari giacobini. Donna di grande intelligenza e
vasta cultura, fine poetessa, ammirevole e dignitosa fin nell’ora della
morte, lodata già dai contemporanei, fortemente stimata da Benedetto
Croce, che a lei dedicò numerose pagine, ancora oggi è fonte d’ispirazione
per scrittori ed autori teatrali affascinati dall’alto ingegno e dai suoi
nobili ideali.
Di nobile e colta famiglia portoghese, i suoi genitori furono Clemente e
Caterina Lopez; nacque a Roma il 13 gennaio del 1752, ma si stabilì ben
presto a Napoli, dove ricevette un'educazione dotta ed accurata.
A venticinque anni andò in sposa a Pasquale Tria de Solis, un ufficiale
dell'esercito napoletano del quale restò vedova nel 1795; dalla loro
unione nacque un bambino che morì a soli due anni. A lui la Pimentel
dedicò cinque sonetti, il più famoso dei quali è Sola fra i miei
pensier sovente i' seggio in cui, con accenti toccanti, espresse il
suo dolore di madre per la straziante perdita.
Figura tipica di letterato settecentesco (la poesia formava una piccola
parte delle tante cognizioni che l'adornavano, Vincenzo Cuoco),
poetessa di grande valore, tanto da essere ammessa nel 1768 nell'Accademia
dei Filateti con il nome di Epolnifenora Olcesamante, e poi a quella
dell'Arcadia col nome di Altidora Esperetusa, di gusto affine al
Metastasio, a sedici anni già conosceva il latino e il greco e componeva
versi; studiosa di scienze matematiche e fisiche, di filosofia, economia e
diritto pubblico, scrisse sull'abolizione della chinea e contro il
feudalesimo, ed espose persino progetti di riforme economiche.
Giornalista di grande rigore, tenne a battesimo la "Repubblica" e, quando
a Napoli si formò la Repubblica Partenopea, compose l'Inno alla libertà
e, per cinque mesi, scrisse accesi articoli in cui sferzava violentemente
i borbonici sul giornale rivoluzionario repubblicano il "Monitore
Napoletano", documento di elevatezza morale, pur se improntato a
idealistica ingenuità e a qualche utopistica concezione nei riguardi del
popolo, da lei fondato con l’intento di conquistare la classe povera alla
causa progressista, in adesione alle nuove idee provenienti dalla Francia
che avevano infiammato anche gli animi degli aristocratici e dei ricchi
borghesi, contro i loro stessi interessi, anticipatori dell’idea di
nazione unitaria e convinti assertori dell’ uguaglianza dei diritti dei
cittadini e della necessità di educare la plebe e di migliorarne le
condizioni.
Monarchica convinta, inizialmente esaltò i sovrani napoletani Ferdinando
IV e Maria Carolina (compose un sonetto in lode del re, l'epitalamio Il
tempio della gloria, per le loro nozze, ed altri sonetti per celebrare
le nascite di alcuni figli, che le valsero l'assegnazione di un sussidio
mensile) ma quando i reali, in seguito alla rivoluzione francese, da
riformisti si trasformarono in reazionari, abbracciò le idee repubblicane
francesi e divenne giacobina e, come riferisce il D'Ayala, nel dicembre
del 1792 ricevette istruzioni sulla costituzione di società massoniche a
sfondo rivoluzionario.
Tali attività non sfuggirono, però, alla polizia borbonica che, sicura
della sua partecipazione a riunioni segrete, la fece sorvegliare da spie
governative che la colsero in flagrante, trovando le prove della
colpevolezza in una sua corrispondenza epistolare con l'ambasciatore
portoghese.
E così nel 1798 fu arrestata e condotta nelle Carceri criminali della
Vicaria, esattamente nella prigione del Panaro, che raccoglieva tutti i
criminali.
Intanto ebbe inizio la guerra contro la Francia, alla quale aderirono le
truppe napoletane comandate dal generale Mack, e il re Ferdinando IV si
ritirò in Sicilia; Eleonora poté essere liberata nel gennaio del 1799.
Subito dopo, il generale Championnet attaccò Napoli ma intanto già era
nata la Repubblica Partenopea, al canto dell'Inno della libertà da
lei composto durante la prigionia; la Repubblica ebbe, però, vita breve,
ed anche Eleonora fu travolta dagli avvenimenti.
Dopo la capitolazione di Castel S. Elmo, mentre era in procinto di partire
per la Francia, fu arrestata dai borbonici travestita da ufficiale
francese.
Imprigionata, prima nelle carceri della Vicaria e poi al Carmine, dove
patì la fame, la sporcizia e l'isolamento, processata frettolosamente,
nonostante avesse come avvocati i valenti Gaspare Vanvitelli e Girolamo
Moles, fu riconosciuta rea di tradimento, insieme ad altri illustri
personaggi come Gennaro Serra, Giuliano Colonna e il principe di Torella,
e salì al patibolo il 20 agosto del 1799.
Così annotò l’avvenimento lo
storico Pietro Colletta: Morirono de’ più noti del regno…e furono
dell’infelice numero Caraffa, Riario, Colonna, Caracciolo…ed altri venti
d’illustre casato; a fianco dei quali si vedevano uomini chiarissimi per
lettere o scienze…e donna rispettabile la Pimentel, e donna misera la
Sanfelice…(Storia del reame di Napoli, Pietro Colletta).
La coraggiosa donna, appellandosi ai suoi illustri natali, aveva chiesto
di morire di scure, anziché di laccio, ma questo privilegio non le venne
accordato perché non ritenuta di "nobiltà napoletana", e le fu pure negata
la cordicella con la quale lei avrebbe voluto legare l'orlo della sua
veste, affinché non le si aprisse quando il suo corpo sarebbe stato
penzoloni sulla forca, e così il 20 agosto del 1799 fu condotta al
patibolo in piazza Mercato tra la folla sghignazzante.
Tommaso Paradiso, il boia che aveva appena mozzato le teste del Serra e
del Colonna, esitò di fronte alla fiera Eleonora, ma la nobildonna gli
offrì il collo senza esitare, dopo aver pronunciato la frase latina
riportata dal Cuoco: Forsan et haec olim meminisse iuvabit ("Forse
un giorno gioverà ricordare tutto questo").
Per un giorno intero, spettacolo a beneficio del popolo, il suo corpo
rimase penzoloni in piazza Mercato, poi fu sepolto nella chiesa di Santa
Maria di Costantinopoli.
Lo storico Vincenzo Cuoco nel suo "Saggio storico sulla rivoluzione di
Napoli" così ricordò Eleonora Pimentel Fonseca:
Audet viris concurrere virgo». Ma essa si spinse nella rivoluzione,
come Camilla nella guerra, per solo amor della patria. Giovinetta ancora,
questa donna avea meritata l'approvazione di Metastasio per i suoi versi.
Ma la poesia formava una piccola parte delle tante cognizioni che
l'adornavano. Nell'epoca della repubblica scrisse il Monitore napolitano,
da cui spira il piú puro ed il piú ardente amor di patria. Questo foglio
le costò la vita, ed essa affrontò la morte con un'indifferenza eguale al
suo coraggio. Prima di avviarsi al patibolo, volle bere il caffè, e le sue
parole furono: - «Forsan haec olim meminisse iuvabit.
SONETTI
I
Figlio, tu regni in Cielo, io qui men resto
Miseria, afflitta, e di te orba e priva;
Ma se tu regni, il mio gioire è questo,
Tua vita è spenta e la mia speme è viva.
Anzi la Fede e cresce e si ravviva,
E per essa al dolor la gioia innesto:
Chè il viver fora al paragon molesto,
E tutto ottien chi al tuo morir arriva,
E parte di tua gloria in me discende,
Chè l’esser madre di uno spirito eletto
L’alma devota in caritate accende.
Ma il laccio di natura in terra é stretto.
Ah, se per morire ancora in Ciel si stende,
Prega tu pace all’affannato petto!
II
Figlio, mio caro figlio, ahi! l’ora é questa
Ch’io soleva amorosa a te girarmi,
E dolcemente tu solei mirarmi
A me chinando la vezzosa testa.
Del tuo ristoro indi ansiosa e presta
I’ti cibava; e tu parevi alzarmi
La tenerella mano, e i primi darmi
Pegni d’amor: memoria al cor funesta.
Or chi lo stame della dolce vita
Troncò, mio caro figlio, e la mia pace,
Il mio ben, la mia gioia ha in te fornita?
Oh di medica mano arte fallace!
Tu fosti mal accorta in dargli aita,
Di uccider più, che di sanar, capace.
III
Sola fra miei pensier sovente i’ seggio,
E gli occhi gravi a lagrimar m’inchino,
Quand’ecco, in mezzo al pianto, a me vicino
Improvviso apparir il figlio i’ veggio.
Egli scherza, io lo guato, e in lui vagheggio
Gli usati vezzi e ‘i volto alabastrino;
Ma come certa son del suo destino,
Non credo agli occhi, e palpito, ed ondeggio.
Ed or la mano stendo, or la ritiro,
E accendersi e tremar mi sento il petto
Finché il sangue agitato al cor rifugge.
La dolce visione allor sen fugge;
E senza ch’abbia dell’error diletto,
La mia perdita vera ognor sospiro.
IV
O splenda il sol, o tuffi il carro adorno,
Ovunque gli occhi di fissar procuro,
Sempre presente al mio pensier figuro
Della morte del figlio il crudo giorno.
Le meste faci scintillargli intorno
Dell’ombre io veggio in fra l’orrore oscuro,
E agonizzar spirante il raffiguro
Se, dove luce, a rimirar ritorno.
E se, cercando al mio dolor conforto,
Talor m’involo alla spietata soglia,
Dubbio e spavento, empi compagni, io porto.
E allor che fra le mura il piè riporto,
Parmi che in tetra faccia ognun m’accoglia,
E gridi: - ahi te infelice, il figlio è morto!
V
Le meste rime del Cantor toscano
Lessi sovente e piansi al suo dolore,
Compassionando lui che per amore
Laura piangeva e la piangeva in vano.
Poichè con cruda inesorabil mano
Morte del figlio mio troncato ha l’ore,
Sfogo in versi pur io l’afflitto core,
E il duol raddoppio per sè stesso insano.
Or chi più giusto oggetto a’ pianti suoi
Ebbe, e in affanno più crudel si dolse?
Anime di pietà, ditelo voi.
D’accesa mente acerbo frutto ei colse,
Io di dover, che più sacro è fra noi:
Ei perchè volle, io perchè il Ciel lo volse.
(Sonetti
di Altidora Esperetusa in morte del suo unico figlio, di E. De Fonseca
Pimentel, Napoli 1799)
Francesca Santucci
dal libro
Donna non sol ma
torna musa all'arte
di Francesca Santucci
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