I dati biografici di Evelina Cattermole Mancini, in arte Contessa Lara,
poetessa del tardo Ottocento, rappresentativa dell’età decadente- umbertina,
sono abbastanza oscuri per quanto riguarda la nascita e la prima infanzia.
Secondo alcuni sarebbe nata a Cannes da padre inglese e madre russa, ed
avrebbe compiuto gli studi presso il Sacre Coeur di Parigi, secondo documenti
più attendibili la nascita sarebbe avvenuta invece a Firenze nel 1849; suo
padre sarebbe stato Guglielmo Cattermole, di origine scozzese, console inglese a
Cannes poi trasferito a Firenze per insegnare, e sua madre Elisa Sandusch,
virtuosa di pianoforte, figlia di un’italiana. Evelina avrebbe dunque appreso
dal padre le lingue straniere e dalla madre le arti musicali.
A Firenze Evelina frequentò i salotti più rinomati, riuscendo però a
conciliare poesia e mondanità, coltivando fin da giovanissima l’attività
letteraria (infatti, per interessamento del poeta Dall’Ongaro, nel 1867
pubblicò, non ancora diciottenne, una prima raccolta di versi d’ispirazione
romantico-patriottica, Canti e Ghirlande) ma anche suscitando continuo scalpore
nelle cronache del tempo per gli scandali e l’avventurosa vita, poi conclusasi
tragicamente col suo assassinio ad opera del pittore col quale conviveva.
Proprio a Firenze conobbe il tenente Mancini, di famiglia aristocratica,
figlio del famoso giurista Stanislao Mancini, che, nonostante i suoi genitori
fossero contrari, nel 1871 la sposò.
Insieme condussero una vita mondana e avventurosa, con lunghi soggiorni a
Napoli, a Roma e a Milano, dove l’uomo era stato nominato capitano dei
bersaglieri.
E fu proprio a Milano che Evelina entrò in contatto con l’ambiente
letterario della Scapigliatura, che le consentì di esprimere liberamente il suo
anticonformismo e la sua spregiudicatezza, parallelamente il marito cominciò a
trascurarla e a tradirla e fu probabilmente per questo comportamento che la
donna cedette al corteggiamento del veneziano Giuseppe Bennati di Baylon, amico
del marito, che, scoperto il tradimento lo sfidò a duello e lo uccise.
In seguito la sua inquieta vicenda sentimentale si arricchì anche di un
altro nome, quello del poeta siciliano Mario Rapisardi, che l’amò di folle
sentimento e la indusse a pubblicare nel 1883 un nuovo volume intitolato Versi,
che pure ebbe un notevole successo.
Separatasi dal marito ritornò a Firenze dove visse modestamente con la
nonna, avviando proprio in questi anni, spinta dalle necessità economiche, la
collaborazione a vari quotidiani e riviste, come il "Fieramosca", "Fanfulla della
domenica" e "La tribuna illustrata", firmandosi Contessa Lara, pseudonimo che molto
piacque all’editore Sommaruga, che le pubblicò una raccolta di versi subito
amati dal pubblico.
Qualche tempo dopo si trasferì poi a Roma, dove ebbe molto successo come
autrice di romanzi, ma dove pure condusse una turbolenta vita sentimentale:
conclusa una relazione tranquilla, l’unico amore sereno della sua esistenza,
con il giovane letterato Giovanni Alfredo Cesareo, si legò di grande passione a
Giuseppe Pierantoni, pittore di modesto talento, che aveva illustrato il suo
libro Romanzo della bambola.
Quando Evelina, stanca dei soprusi e dei ricatti continui che subiva da colui
che da amante era diventato suo sfruttatore, tentò di ribellarsi, il 30
novembre del 1896 l’uomo la uccise con un colpo di pistola.
In agghiacciante coincidenza tra letteratura e vita Evelina morì proprio
della stessa morte violenta che tante volte aveva descritto nelle sue opere.
Nel 1987, postumo, fu pubblicato un suo nuovo volume: E ancora
versi.
Poetessa dotata di una personalità stilistica decisamente autonoma nel
panorama letterario di quegli anni, ma assai vicina al decadentismo, Contessa
Lara ha sempre suscitato un alone di diffidenza nei suoi riguardi, la sua arte
è stata sovente danneggiata dall'aura dannunziana e kitsch- decadente, diffusa
intorno alla sua figura ; lo stesso pseudonimo dannunziano, la morte violenta,
l'atmosfera voluttuosa di certe sue composizioni, l'hanno relegata tra quelle
cose di "pessimo gusto" di gozzaniana memoria, eppure i suoi versi,
lirica confessione legata soprattutto alla propria esperienza sentimentale, nei
quali confluisce, in maniera quasi ossessiva, l’autobiografismo,
elemento dal quale tuttavia, con la maturità, seppe distaccarsi, sono
eleganti e raffinati.
Un canto travagliato, quello di Contessa Lara, ridicolizzato da Giosuè
Carducci che ironizzava addirittura sul suo pseudonimo, anche avversato, da quel
Conte di Lara, in realtà Domenico Milelli, uomo dallo spirito mordace e poeta
garibaldino enfatico e monotono che più nessuno oggi ricorda, che prima le fu
amico e poi l’attaccò definendola "nemica", eppure molto amato fin
dalla sua prima pubblicazione del 1883, Versi.
Il desiderio d’amore, la necessità di un io mascolino stabile e forte al
quale appoggiarsi, il binomio amore- morte, la tormentata religiosità, la paura
del destino, l’acuto presagio della sua stessa fine violenta, il senso della
fragilità emergente anche dal bisogno continuo di descrivere gli oggetti di cui
si circondava e nei quali si riconosceva, la passività, la solitudine, l’attenzione
alle piccole cose, alla quotidianità raccontata con disincanto, quasi
fotografata, sono i temi fondamentali di questa incantevole poetessa che seppe
essere lieve ed ironica, delicata ed appassionata, colta eppure disarmante nella
sua semplicità, documentando un bel ritratto di donna fin de siècle, in
assoluta adesione al suo tempo anche nelle manifestazioni più esterne,
femminile ed inquieta: "dama e poeta".
I.
DI SERA
Ed eccomi qui sola a udir ancora
il lieve brontolìo de’tizzi ardenti;
eccomi ad aspettarlo: è uscito or ora
canticchiando, col sigaro tra i denti.
Gravi faccende lo chiaman fuora;
gli amici a ‘l giuoco de le carte intenti,
od un soprano che di vezzi infiora
d’una storpiata melodìa gli accenti.
E per questo riman da me diviso
fin che la mezzanotte o il tocco suona
a l’orologio d’una chiesa accanto.
Poi torna allegro, m’accarezza il viso,
e mi domanda se son stata buona,
senza nemmeno sospettar che ho pianto.
II.
ASPETTANDO
Mi susurrò- Domani. Ed io: - Domani
m’avrai ne le tue braccia a l’istessa ora;
fra i tuoi capelli passerò le mani,
tu, sognando, dirai che m’ami ancòra.-
Ecco, son qui. Lo attendo. A i più lontani
passi, a ogni lieve suon che vien da fuora
tendo l’orecchio, e in desideri arcani
frugo con gli occhi la gentil dimora.
E’ un vago nido. Le finestre aperte
di primavera invitano a l’incanto:
scherza il sole tra i fiori e si ‘l velluto.
Io, l’armi antiche e i quadri, onde coperte
son le mura, contemplo; e penso intanto
qual tesoro di baci ho già perduto.
III.
IMPRESSIONE
Nella sala da pranzo ampia e fiorita
d’antichi arazzi, il sol s’indugia un poco
in una lista d’oro scolorita,
mentre scoppietta nel camin il fuoco.
E’ un tramonto d’inverno. Ecco la vita.
Ecco quale vorrei che a poco a poco
mi fuggisse dagli occhi, scolorita;
mentre in una quiete ampia e fiorita
gli ultimi sprazzi ancòr mandasse il fuoco.
IV.
DAMA POETA
Forse da messa o da un bazar tornata,
ne l’intenso calor de’l mezzogiorno,
entra ne la camera e la grata
penombra beve de’l fresco soggiorno.
Qui scorre una fontana profumata
in una coppa d’onice a contorno
d’oro, un palmizio dorme a la vetrata
sotto un ciel di raso a pizzi adorno.
Ella ride spogliandosi a lo specchio,
e sorseggia il thé verde lentamente
da una tazzetta di Giappone vecchio;
Poi de la scrivania sopra le carte
Chinato il picciol capo intelligente,
donna non sol ma torna musa a l’arte.
V.
DESIDERIO
O povere mie carte,e resterete
con secchi fiori e ciocche di capelli,
rinchiuse entro uno stipo,in fra segrete
ricordanze de’miei giorni più belli!
Non è per voi di gloria avida sete
il duel che fa che in pianto io vi favelli,
io che sol chiedo a l’arte intime e liete
larve onde il ver per poco si cancelli.
Ma egli è il desio d’una manaccia bianca
che vi scompigli un dì,ne la parola
cercando questa offesa anima stanca:
la man che chiude gli occhi e che consola
quando la vita ne la madre manca
voi, carte, ingiallirete,io morrò sola.
Francesca Santucci
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