Papa Benedetto XVI
Schivo e riservato,
scevro da protagonismi ma, suo malgrado, protagonista di questi nostri
tempi, Joseph Ratzinger, eletto Papa col nome di Benedetto XVI, nome
scelto in omaggio a Benedetto XV (papa dal 1914 al 1922, il primo ad
aver scritto un’enciclica contro la guerra, definita “inutile strage”)
per porsi da subito come creatore di pace, nel rispetto delle altre
culture e delle diverse fedi, perché, secondo il suo pensiero,
“l’altro, con la sua fede, la sua convinzione religiosa merita
rispetto”. Conservatore, ma non
ad oltranza, riformatore della Chiesa verso la quale è sempre stato
critico (“Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, quanta superbia, quanta
autosufficienza!) , ma non suo inflessibile gendarme, nell'omelia
della Messa di inizio del suo Pontificato ha dichiarato di non avere
un programma di governo, di non voler fare la sua volontà e di non
voler perseguire le sue idee, ma di volersi mettere in ascolto, con
tutta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e di
lasciarsi guidare dal Signore», perché la sua unica preoccupazione è
quella di proclamare al mondo la presenza viva di Cristo, la sola
rotta che si prefigge di seguire è la verità della fede. Teologo di grande
statura, libero docente di teologia già a 32 anni, amante da sempre
degli studi e della scrittura (spesso aveva chiesto a Giovanni Paolo
II, del quale era fedele collaboratore, il permesso di ritirarsi a
casa sua, nella Foresta nera, per dedicarsi ai suoi amati studi),
Benedetto XVI è autore di importanti opere intrise di profonde
riflessioni su Dio e la Chiesa (ma anche di articoli e di liriche
sentimentali, dedicate alla natura e alle feste religiose). Viene qui proposto
uno dei suo testi più belli, una meditazione per la Settimana Santa,
in cui parla dell'angoscia profonda, la solitudine, insita
nell'animo umano, dalla quale può salvarci soltanto la presenza degli
altri e la luce della Grazia.
Francesca
Santucci
LA SOLITUDINE...
Se un bambino si dovesse avventurare da solo
nella notte buia attraverso un bosco, avrebbe paura anche se gli si
dimostrasse centinaia di volte che non ci sarebbe alcun pericolo. Egli
non ha paura di qualcosa di determinato, a cui si può dare un nome, ma
nel buio sperimenta l'insicurezza, la condizione di orfano, il
carattere sinistro dell'esistenza in sé. Solo una voce umana potrebbe
consolarlo, solo la mano di una persona cara potrebbe cacciare via
come un brutto sogno l'angoscia. Si dà un'angoscia – quella vera,
annidata nelle profondità delle nostre solitudini - che non può essere
superata mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona
che ci ama.
Quest'angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome,
ma è solo l'espressione terribile della nostra solitudine ultima. Chi
non ha sentito la sensazione spaventosa di questa condizione di
abbandono? Chi non avvertirebbe il miracolo santo e consolatore
suscitato in questi frangenti da una parola di affetto? Laddove però si ha una solitudine tale che
non può essere più raggiunta dalla parola trasformatrice dell'amore,
allora noi parliamo di inferno. E noi sappiamo che non pochi uomini
del nostro tempo, apparentemente così ottimistico, sono dell'avviso
che ogni incontro rimane in superficie, che nessun uomo ha accesso
all'ultima e vera profondità dell'altro e che quindi nel fondo ultimo
di ogni esistenza giace la disperazione, anzi l'inferno. Jean-Paul Sartre ha espresso questo
praticamente in un suo dramma e nello stesso tempo ha esposto il
nucleo della sua dottrina sull'uomo. Una cosa è certa: si dà una
notte nel cui buio non penetra alcuna parola di conforto, una porta
che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della
morte. Tutta l'angoscia di questo mondo è in ultima analisi l'angoscia
provocata da questa solitudine. Per questo motivo nel Vecchio
Testamento il termine per indicare il regno dei morti era identico a
quello con cui si indicava l'inferno: sheol. La morte infatti è
solitudine assoluta. Ma quella solitudine che non può essere più
illuminata dall'amore, che è talmente profonda che l'amore non può più accedere ad essa, è l'inferno.
"Disceso all'inferno" - questa confessione del Sabato santo sta a
significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che
è disceso nel fondo irraggiungibile ed insuperabile della nostra
condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche
nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale
noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce
che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine
insuperabile dell'uomo è stata superata dal momento che Egli si è
trovato in essa. L'inferno è stato vinto dal momento in cui l'amore è
anche entrato nella regione della morte e la terra di nessuno della
solitudine è stata abitata da Lui: nella sua profondità l'uomo non
vive di pane, ma nell'autenticità del suo essere egli vive per il
fatto che è amato e gli è permesso di amare.
Nessuno può misurare in ultima analisi la portata di queste parole:
"disceso all'inferno". Ma se qualche volta ci è dato di avvicinarci
all'ora della nostra solitudine ultima, ci sarà permesso di
comprendere qualcosa della grande chiarezza di questo mistero buio.
Nella certezza sperante che in quell'ora di estrema solitudine non
saremo soli, possiamo già adesso
presagire qualcosa di quello che avverrà. Ed in mezzo alla nostra
protesta contro il buio della morte di Dio cominciamo a diventare
grati per la luce che viene a noi proprio da questo buio.
Joseph RATZINGER, «Sabato santo», in Karl RAHNER - Joseph RATZINGER,
Settimana santa, Brescia, Queriniana, 1999 (V edizione), 78-79.
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