Francesca Santucci
LE BAMBOLE, LE REBORN E MARGHERITA DE GIORGI
La mia Lizzy,
nata a Lecce dalle
amorevoli mani di Margherita De Giorgi l'1 ottobre 2007,
adottata il 12 marzo 2008
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Sono belle le bambole,
sono come bambini, sono il sogno, l’illusione della realtà. Sono eterne,
immortali, perfette, nulla le scalfisce, nessun evento doloroso o
impuro le ferisce, non le segna il tempo. Stanno lì, con le
morbide chiome bionde o rosse o brune, gli occhi cerulei, verdi,
scuri, stupefatti verso il mondo, tutto a vedere, nulla a
guardare. Contrariamente ai bambini, però, le bambole non
crescono, non invecchiano, non muoiono mai, perciò, dunque, sono
anche rassicuranti. Similmente emozionano,
danno gioia, che si sia bambine o adulte, commuovendo chi è
figlia, chi è madre, chi non lo è più, chi non lo è mai stata, ma,
in fondo, tutte le donne sono madri sempre e per sempre, anche
quando tra le braccia stringono non un bambino in carne ed ossa,
ma un suo simulacro, perché è questo l’unico vero motivo per cui
piacciono le bambole: somigliano ai bambini, amiamo in loro i
bambini, amiamo in loro i bambini che siamo stati, ne amiamo lo
stato d’innocenza, l’incoscienza dell’età spensierata
irrimediabilmente trascorsa. Ed era, sicuramente, la
bambola il gioco preferito un tempo dalle bambine, ma restava
oggetto caro anche nell’età adulta. L’attendevano con trepidazione
in dono (che la portasse la Befana, Babbo Natale o Santa Lucia,
per un compleanno o un onomastico); le acconciavano i morbidi
capelli in mille fogge diverse; con avanzi di multicolori rasi,
voiles, cotoni, pizzi, merletti e nastri s’improvvisavano sarte e
cucivano gonnelline e camicette, culottes e cuffiette, la
stringevano fra le braccia per una malattia immaginaria, la
cullavano per farla addormentare, piangevano mortalmente
addolorate quando, intera o una sua parte, si rompeva,
assecondavano il loro istinto materno e, mamme ancora da divenire,
riversavano sul caro oggetto il loro affetto, come se davvero
fosse stata una loro creatura. La bambola non era solo un
giocattolo, era il sogno, la realtà da divenire; in età adulta,
poi, per chi continuava ad amarla, avendo avuto o meno bambini in
carne ed ossa, era la prosecuzione del sogno, l’illusione della
realtà. Ciò che era delizia
della bambina, diveniva, pur essendo trascorsa l'età dei giochi,
anche quella della donna, amando conservarla con gran cura,
disponendola in atteggiamenti gentili o sbarazzini, nel salotto o
in camera da letto, trasformandola in oggetto decorativo, nato per
abbellire la casa ed allietare l’animo col suo valore di piccola
opera d'arte. Si può dire che
esistano le bambole da quando al mondo vi sono bambine in attesa
di crescere e di divenire a loro volta madri, e diffuse alle più
svariate latitudini e con i più diversi significati: nella
preistoria, foggiate in pietra, senza arti né testa, o intagliate
nel legno, o plasmate in argilla, o ricoperte di stracci e di
foglie, o malamente dipinte; presso i Sumeri, simbolo di
fecondità, offerte agli dei per propiziarsi la loro benevolenza
dalle spose desiderose d’un bimbo e dagli agricoltori ansiosi per
il loro raccolto; nell'antica Grecia e presso i Romani come
balocco. Anche Cortez, durante le sue eplorazioni nel Messico,
osservò alla Corte di Montezuma che molte donne azteche tenevano
tra le braccia delle bambole tinte a vivaci colori; commovente,
poi, l’usanza delle madri pellerossa, alla morte d’un figlio
prematuro, di recarne indosso, per tutta la vita, i pupazzi, come
se quelle cose inanimate racchiudessero un palpito delle loro
creature. E ancora oggi in Giappone, dove si fabbricano eleganti
ed artistiche bambole, grande onore è attribuito sia alle bambole
che ai bambolotti: infatti vengono celebrati due volte l’anno (il
3 marzo le bambole, il 6 giugno i bambolotti) in una festa detta Hinamatasuri, e quando "muoiono", cioè si rompono, vengono
seppellite con un lungo cerimoniale. Nell’antica Roma,
verso la fine dei Saturnali, antica festività religiosa romana,
era consuetudine scambiarsi doni fra amici: i fanciulli ricevevano
bambole e pupazzi di terracotta, di cuoio, d'osso o di stoffa,
rozzamente foggiati, che sarebbero stati i loro giocattoli durante
l'annata. Naturalmente per i figli delle famiglie patrizie le
bambole erano più pregiate e più costose, di cera, d'avorio, o di
legno scolpito e dipinto, e non di rado ripetevano, nelle vesti e
nell'acconciatura, la moda dell'epoca; adornati di monili
d'oro ed accompagnati da un vasto repertorio di suppellettili
(mobili, piattini, bacili, ecc.) servivano ad accrescere nelle
fanciulle non solo l’ illusione di essere piccole mamme, ma anche
quella di essere brave padroncine di casa. Giunte in età da
marito, le fanciulle portavano, infine, le compagne dei loro giochi
all'altare di Venere, perché la dea le assistesse nella
difficile scelta d'uno sposo. Nell’antichità,
tuttavia, le bambole non erano solo balocchi per fanciulli, ma
potevano essere anche ex-voto, che i fedeli conservavano nei
recessi più sacri della loro casa o appendevano nei santuari per
propiziarsi le divinità; ad esempio, presso gli antichi Egizi
venivano poste nelle tombe statuette di argilla, di bronzo, di
alabastro, o di smalto, dalle gambe e dalle braccia articolate,
affinchè questi piccoli simboli dell’uomo aiutassero il defunto a
sentirsi meno solo nel lungo viaggio ultraterreno; con analogo
significato probabilmente gli antichi abitanti del Perù le
ponevano nelle tombe dei loro cari. Poco si sa delle
bambole dell’età medioevale, che non ci sono giunte perché,
probabilmente, fatte in materiali molto fragili, ipotesi, questa,
che sarebbe suffragata da un miracolo attribuito a Santa
Elisabetta allorché era ancora bambina: secondo gli scrittori,
infatti, avrebbe lasciato inavvertitamente cadere le sue bambole e
queste, prodigiosamente, non si sarebbero rotte. Forse, in quell’età
così pia, le bambole, più che balocco, dovettero essere
considerate alla stregua di angeli o santi. Durante il
Rinascimento la bambola si diffuse moltissimo in Italia e in
Francia, divenendo uno splendido oggetto d'arte, che le dame non
disdegnavano di ricevere in dono al pari delle fanciulle; il corpo
era ancora primitivo, ma gli abiti che lo ricoprivano erano
sontuosi e spesso preziosissimi, simili ai costumi delle dame
dell'epoca. Schiere di artigiani
cominciarono a dedicarsi esclusivamente all'industria delle
bambole, e a Limoges e a Parigi nacquero centri di produzione di
bambole sempre bellissime, eleganti e costosissime; dal
Rinascimento sino al XIX secolo ad Amburgo e Norimberga si
fabbricarono e si esportarono in tutti i paesi d'Europa bambole a
buon mercato, senza braccia né gambe, terminanti rozzamente in un
cono. Dal XIV secolo sino
all'Ottocento le bambole ebbero anche un'altra funzione: quella,
cioè, di suggerire alle mamme, attraverso il balocco della bimba,
i nuovi dettami della moda: "le piavole (bambole) di Franza", ad
esempio, erano molto ricercate nel settecento dalle dame veneziane
che, sui minuscoli manichini, avevano modo di conoscere le ultime
novità della moda parigina. Fu forse anche per
questa ragione che la bambola, un tempo, fu quasi sempre
atteggiata a donnina in miniatura e, come tale, vestita da tutta
una schiera di sarte e di modiste specializzate nella confezione
di costumi. Nell’Ottocento, poi,
sotto l'impulso dell'industria e della concorrenza, e procedendo
nelle modifiche con un ritmo più accelerato, gli artigiani
perfezionarono sempre più la lavorazione delle bambole, dapprima
studiandone nuovi impasti (e a questo proposito importante fu
l'adozione della cartapesta, introdotta a Norimberga nel 1860, in
luogo del legno e della cera), poi perfezionando l'articolazione
degli arti con la sostituzione ai fili di un sistema a pernio, in
seguito dandogli, mediante un soffietto, la facoltà di parlare, e
infine rendendone mobili gli occhi e acconciandole con capelli
ondulati, veri oppure ricavati da una lana speciale che, se
passata a bollitura, aveva la prerogativa di arricciarsi
morbidamente. Alcune divennero tanto perfette che furono poste nei
musei per essere conservate. Verso la metà
dell’Ottocento in Germania furono fabbricate le prime bambole
che riproducevano dei bambini, e non degli adulti, ma fu
all’inizio del Novecento che i migliori fabbricanti di bambole
europei cominciarono a produrre i primi bambolotti caratterizzati,
con corpi da bebè, articolati alle spalle, alle anche e al collo,
con braccia e gambe piegate e con i visi atteggiati al sorriso, al
pianto, alla smorfia, allo stupore. E, nell’universo delle
bambole, un posto particolare hanno, poi, sempre continuato ad
occupare quelle che rappresentano i bambini molto piccoli, neonati
e di pochi anni, affascinanti per l’estrema naturalezza dei tratti
espressivi, per il realismo delle espressioni, simili a quelle
tipiche dei bambini veri, e per la bellezza degli abiti: bambini
sorridenti, imbronciati, tristi, con bocche chiuse o aperte a
lasciar intravedere i dentini, persino la lingua ben modellata. Ed è, probabilmente, a
questo modello di bebè caractère che s’ispira la nuova
realtà che ritroviamo oggi nel variegato mondo delle bambole, una
novità che arriva dall’America, che ha già attecchito all’estero,
che in Italia procede cautamente e un po’ fatica ad imporsi, che
ha incondizionatamente conquistato il cuore di chi scrive: le
Reborn.
Il reborn,
termine che significa "rinascita", è una tecnica artistica
americana che consente di trasformare una semplice bambola in
vinile in preziosa bambola da collezione, attraverso
l’eliminazione della vernice originaria mediante solventi, il
lavaggio delle parti ripulite e la nuova colorazione con olii,
inchiostri o acrilici, con vari strati, sì da ottenere una tinta
il più possibile naturale, ridipingendo accuratamente ogni
dettaglio, sopracciglia, bocca, unghie, pieghette della pelle,
inserendo occhi somiglianti a quelli umani (per i bebè che avranno
gli occhi aperti, ma ci sono anche quelli ad occhi chiusi),
incollando morbide ciglia, applicando sulla testa parrucchine
sintetiche o capelli in mohair, inserendoli con la tecnica del
rooting, cioè pochi alla volta, per un effetto più naturale,
appesantendo il corpo in stoffa e gli arti con materiale plastico
(c’è anche chi, addirittura, tra i vestiti inserisce un cuoricino
che riproduce perfettamente il battito cardiaco), aprendo le
narici per dare l’impressione della respirazione, infine
procedendo alla vestizione, corredandola di accessori vari (ad
esempio un succhiello, un biberon) e provvedendo alla scelta del
nome. Le bambole reborn si
propongono, dunque, con fattezze infantili, neonati o bimbi, e,
come i bimbi veri, morbido e profumato è il loro corpo, "carnose"
le membra, naturali i colori, persino quello dei capillari
evidenti e dei rossori somiglianti, appunto, a quelli dei neonati.
Possono, inoltre, assumere, trattati con ovvia delicatezza,
s’intende, le più svariate posture, anche portare un dito alla
bocca, hanno persino la testa ciondolante, perciò è necessario
sorreggerla; ad occhi chiusi, socchiusi, spalancati, colti
nell’abbandono del sonno, nella smorfia del pianto, nel sorriso
spontaneo dell’innocenza, in pose strane e buffe, affascinano,
indiscutibilmente, proprio per la somiglianza con i bambini,
talvolta pure inquietano per l’identico motivo, cioè l’accentuato
realismo, ma pure appagano il senso estetico, perché sono
assolutamente belle.
S’intende che ogni
atto creativo è generato da un moto del cuore, creare una bambola,
poi, per le implicazioni emotive che sottintende, ancor di più, ma
creare una Reborn, non giocattolo, trastullo infantile,
bensì "oggetto" da collezione per adulti, piccolo capolavoro
d’indubbio valore artistico, significa andare oltre, è "fare una
bambola ad immagine e somiglianza di bambino", e un bambino reale,
o un suo simulacro, non può che suscitare emozioni gioiose,
sentimenti positivi (tenerezza, desiderio di proteggere) e
pensieri felici, non può che trasmettere un messaggio d’amore, e
ciò nelle creazioni di Margherita De Giorgi, che alla sapiente
abilità tecnica unisce una grande sensibilità di donna e di madre,
non s’intuisce, ma balza prepotente agli occhi. Dalle sue mani
amorevoli scaturiscono, come per incanto, ma dopo lungo, attento,
laborioso lavoro, anzi, "travaglio", creature d’infinita dolcezza,
in evidente realismo, ma senza ombra di artifizio (ed è questo che
la differenzia da altre creatrici di Reborn), giacché riesce ad
imprimervi una particolare aura di dolcezza che mitiga la forte
caratterizzazione, pur mantenendo intatta, appunto, la
somiglianza. Mentre, come un
demiurgo (un divino artigiano), le fa "rinascere", anzi, no,
proprio le crea, imprime loro persino un carattere; basta fare un
salto nella galleria del suo sito, curiosare fra le creature
adottate e da adottare per rendersene conto: placide, tranquille,
stupite, impertinenti, lamentose, sonnacchiose, birichine,
sorridenti, stanno Jared e Nadia, Andrea e Rossella, Avery ed
Alice, tutte da stringere, coccolare, proteggere, proprio come
bambini, giacché tanto simili sono a veri neonati che pare davvero
che da un momento all’altro debbano respirare e sorridere e
piangere e strillare. Nessun dettaglio
tralascia Margherita, accuratissima è la colorazione della
delicata pelle, simile a quella naturale dei bambini, con grinze e
rossori, capillari e venuzze, perfette manicure e pedicure, così
tanto da sembrare vere unghiette, veri palmi delle mani, vere
piante dei piedini, tutto esattamente a simulare, proprio come se
fosse per davvero. Opera eccelsa dell’umano ingegno scaturita da
un gesto d’amore, le bambole di Margherita veicolano un messaggio
gioioso, di felicità: la nascita, i sogni da sognare, le illusioni
da coltivare, i desideri da realizzare, dunque la vita in
divenire. ...E quando, poi, emozionata come una madre in erba,
ho accolto fra le mie braccia una sua creatura (nata da un
Kit in
vinile di Pat Secrist, modello Tulip)
che
ho ribattezzato Lizzy, della quale mi ero subito invaghita, dal
primo momento in cui l’avevo vista (forse per una vaga
rassomiglianza con me stessa bambina, la frangetta sbarazzina, la
forma e il colore degli occhi, le ciglia così arcuate, la forma
del nasino, la bocca piccolina, la linea del mento, il colorito
roseo …ma, in fondo, poi, tutti i bambini si assomigliano), quando
ho potuto vedere con i miei occhi quanto fosse bella e tenera, e
morbida e profumata, ho provato sensazioni confuse, insieme di
commozione e turbamento, tristezza e gioia, ripensando, appunto,
alla bambina che sono stata, pensando alla spensieratezza dello
stato dell’innocenza, l’età infantile in cui si è distanti dal
"dolore", quando nulla può ferire e si è protetti, e pensando
anche all’infanzia, purtroppo, variamente violata, avvilita,
calpestata, nei nostri tempi crudeli. Poi, però, riguardando
i suoi occhi stupefatti, sfiorando con una carezza i suoi bei
capelli d’un caldo castano, il volto così realistico,
sapientemente tinto del colore della pelle dei neonati, come le
manine delicate e i piedini e le unghiette, tutto amorevolmente
curato in ogni minimo dettaglio, ho realizzato che solo un cuore
sensibile di donna e di madre può "partorire" una simile creatura,
e, nuovamente pervasa da sentimenti positivi, mi sono riconciliata
con il mondo. Riconfermo qui la mia
ammirazione per il genio creativo di Margherita De Giorgi, e la
ringrazio per il sogno, per l’illusione, e per tutte le emozioni
belle e pure che sa donare.
Francesca Santucci, 14
marzo 2008
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