Francesca Santucci  


Antologia Palatina

 

 

Un genere molto diffuso nella letteratura greca, sia per la varietà dei temi, sia per la facilità delle composizioni, nato dal bisogno di esprimere con pochi versi un dono o un ex voto, fu l'epigramma, che finì per svincolarsi da tale scopo pratico e, acquisendo una propria vitalità, divenne autonoma espressione artistica, seppur concisa, di uno stato d'animo.
Molti epigrammi sono attribuiti a poeti e prosatori dell'età classica, ma la fioritura più feconda di questo genere coincide con gli inizi del periodo alessandrino; fu allora, infatti, che gli epigrammi cominciarono ad essere raccolti in sillogi o antologie.
Meleagro di Gàdara, vissuto tra il II e il I sec. a. C., fu il primo autore a comporre una raccolta epigrammatica, base delle raccolte successive e della futura Antologia Palatina, che aveva per titolo "La Ghirlanda" (Stéfanos) perché ogni autore era simboleggiato da un fiore nell'introduzione, con i componimenti di 47 poeti; oltre un secolo più tardi Filippo di Tessalonica arricchì la raccolta con le opere di altri 12 poeti.
Ben più ampia fu la silloge di Agazia che, nel VI secolo d.C., mise insieme epigrammi di autori diversi ma di contenuti affini, nel cosiddetto "Ciclo", diviso in sette libri; ma fu sullo scorcio dell'XI secolo che Costantino Cefala, un prelato bizantino, riunì tutte queste raccolte, insieme ad altre minori, da cui derivò in gran parte la cosiddetta "Antologia Palatina", quattromila epigrammi in 15 libri, contenuti in un codice Palatino di Heidelberg, dato alle stampe dal 1772 al 1776, sicuramente scritto da una pluralità di autori.
Il manoscritto di Heidelberg suscitò ben presto grande interesse e, nel 1623, fu donato da Massimiliano di Baviera al papa Gregorio XV, passando così al Vaticano. Nel 1797 Napoleone chiese la consegna del manoscritto che fu portato alla Biblioteca Nazionale di Parigi; dopo il 1815 una parte, la più ampia, ritornò alla Germania, la rimanente restò in Francia.
L'Antologia Palatina, che comprende anche "l'Appendix Planudea", cinquantasette epigrammi in sette libri ispirati a vicende del mito, messi assieme da Massimo Planude intorno al 1300, raccoglie, dunque, epigrammi anonimi e di autori illustri, di argomenti diversi: amorosi, erotici, votivi, funerari, tombali, conviviali, scommatici.
Gli epigrammi più belli sono quelli dedicati all'amore in tutti i suoi aspetti, e tra gli epigrammisti che più sapientemente affrontarono il tema dell'amore, ricordiamo Meleagro, nato a Gadara, in Palestina, ma vissuto quasi sempre a Cos, dal 140 al 70 circa a. C.; seguace della filosofia cinica, scrisse alcune opere satiriche in prose e in versi. I suoi epigrammi, dispersi nell'antologia, sono più di 130, e quasi tutti di argomento erotico, tranne alcune significative eccezioni, come la descrizione della primavera in 23 esametri.
Fondamentale nella poesia di Meleagro è il ruolo svolto dall'amore, tema analizzato in tutte le sue sfumature, ma sempre considerato come vicenda che apporta ai protagonisti angoscia, gelosia, nostalgia e tormento, turbine di passioni da cui non è esente nemmeno lo stesso poeta che, preso dalla rabbia o dallo sconforto, arriva ad imprecare contro Eros, sempre nel linguaggio colto ed elegante del linguaggio e dello stile dei suoi epigrammi.
Due furono le figure femminili che più delle altre lasciarono tracce nei suoi versi: Zenofila ed Eliodora. A quest'ultima, in particolare, il poeta fu molto legato, in un legame passionale, intenso, profondo e tormentato dai morsi della gelosia. La sua passione per Eliodora, che forte risalta nei suoi versi, è arricchita di immagini personali, delicate ed efficaci, che, seppure tra virtuosismi stilistici, la delineano sincera, specialmente nel momento del distacco per la sua scomparsa.
I)
E' il tuo bacio un vischio; di fuoco gli occhi, Timario:
se guardi, bruci, e, come tocchi, leghi.
II)
Se vedo Terone, tutto vedo ma se, per converso,
vedo tutto e non lui, nulla vedo.
III)
Dentro il mio cuore lo stesso Eros ha dato forma a Eliodora
che soavemente mi parla, anima dell'anima mia.
IV)
L'anima mia mi dice di fuggire il desiderio di Eliodora,
ben conoscendo le lacrime e le gelosie di un tempo,
Lo dice; ma la forza di fuggire io non ho; mi avverte,
ma poi anch'essa, pur ammonendomi, senza pudore l'ama.

Paolo Silenziario, contrariamente agli autori più antichi della poesia ellenistica, considerò l'esperienza amorosa non come un "lusus", un gioco disimpegnato, pur se legato a momenti di amarezza, bensì come spinta passionale, non priva di senso di colpa, che gli antichi non avevano, ma che gli derivò dal clima culturale del suo tempo, dalla religione cristiana che considerava l'eros come una grave colpa e dal moralismo della corte, impresso soprattutto dall'imperatrice Teodora che cercava di far dimenticare i suoi non candidi trascorsi.
I)
Rodope, nascondiamo i baci e l'opera di Venere,
amabile ma piena di insidie. E' dolce restare nascosti,
e sfuggire allo sguardo indiscreto dei custodi;
il letto segreto è più dolce di quello a tutti noto.
II)
Mia bella, gettiamo le vesti, e membra nude
a nude membra avviluppiamo.
Nulla fra noi; anche il tuo sottile velo
mi appare simile alle mura di Semiramide;
i corpi alle labbra s'incollino; il resto, celato
dal silenzio; odio una bocca indiscreta.

Gli epigrammi di Asclepiade, famosi per il calore sensuale dei suoi versi e per il vivace realismo delle situazioni e delle immagini, in connubio felice tra sentimento amoroso e licenzioso edonismo, sono sempre ispirati al tema dell'amore, di cui il poeta si sente vittima, ma senza il quale la vita non avrebbe senso, fonte di gioia e piacere, ma anche di dolori causati da gelosia o rifiuto, e della bellezza, di cui Venere si serve per avvincere sia gli dei sia i mortali.
Le donne dei suoi epigrammi non sono mai descritte; per ricordarne il fascino che hanno suscitato in lui il sentimento amoroso, Asclepiade, senza indugiare nella descrizione particolareggiata delle figure femminili, accenna brevemente alla bruna bellezza di Didima, al lampo degli occhi di Cleofe, alla dolcezza del volto di Nicarete, al fulgido splendore di Archeanassa.
I)
Nevica, grandina, suscita la tenebra, fiammeggia, folgora,
scaglia sulla terra tutti i nembi infuocati.
Se mi uccidi, allora smetterò, ma se mi lasci vivere,
anche immerso in pericoli peggiori di questi, mi darò ai piaceri;
o Zeus, mi trascina quel dio che domina anche te, e una volta, convinto da lui,
attraverso pareti di bronzo, mutato in oro, sprofondasti in un letto d'amore.

II)
Lunga, la notte invernale che fa declinare le Pleiadi a mezzo il cielo,
mentre io vado su e giù davanti alla porta, inzuppato di pioggia,
trafitto dal desiderio di quell'ingannatrice; non amore
m'inviò Venere, ma un crudele dardo di fuoco.

Notevole nell'Antologia Palatina è il fascino di molti epigrammi anonimi, dei cui autori si sono forse irrimediabilmente perse  le tracce, ma che, come meteore, hanno lasciato una netta scia nel firmamento della lirica, soprattutto amorosa, con versi fulminei, profondi ed incisivi, in cui altalenano desiderio, struggimento, passione e ardore, che hanno influenzato molti poeti nel corso dei secoli e che ancora oggi continuano ad incantare.
Anonimo
Sia che ti veda lucente di neri capelli, signora,
sia che ti riveda bionda di chiome,
pari sempre ne sfolgora la grazia. Se fossero candidi,
in quei capelli abiterebbe Amore.
Anonimo
Me, celeberrima donna, ricopre la lastra funebre.
Sciolsi il cinto per un uomo solo.
Anonimo
Ho la miseria e l'amore: due mali. Il primo sopporto,
ma non reggo il fuoco di Venere.
Anonimo
Dimmi, bagnina superba, che bagno di fuoco a me fai?
Sento quel fuoco prima di spogliarmi.
Anonimo
Ah, s'io fossi una rosa di porpora, e tu mi prendessi,
e il tuo seno di neve mi donassi!
Anonimo
Mando un profumo soave, non te, ma il profumo onorando:
tu puoi anche dare profumo al profumo.

Francesca Santucci

passioni d'amore