Un romanzo è
sempre autobiografico, non importa quanto fortemente, fino a che
punto contenga vicende realmente vissute dall’autore; la coscienza
di chi scrive riflette/trasmette le più intime emozioni personali
perché il processo espressivo consente di liberare i tormenti
riposti nei recessi più profondi dell’animo. Un romanzo è
sempre autobiografico, un buon romanzo è quello che riesce a
fungere da specchio tra l’autore e il lettore, è quello nel quale
il lettore, pur nella diversità del vissuto, può riconoscersi, può
riconoscere una verità universale, che sia valida anche per se
stesso, di qualunque latitudine sia, a qualunque popolo
appartenga, di qualunque sesso, qualunque sia la sua cultura, il
suo credo religioso, la fede politica. L’ultimo
romanzo della scrittrice e studiosa Anna Santoro, “Pausa per
rincorsa”, edito dalla casa editrice Avagliano, è, appunto, un
buon romanzo proprio perché contiene un’innegabile verità
universale, quella che tutti dobbiamo vivere/subire/attraversare
ciò che a nessun essere vivente è dato scampare, pur nei diversi
aspetti in cui si manifesta, il dolore; ma il dolore non è mai
sterile, aiuta a riflettere, a cambiare, a crescere. Ricordo che un
giorno la mia insegnante di religione del liceo (poi morta qualche
anno dopo di cancro al seno) sentenziò: “La vita è una pagina
bianca finché non v’è stato scritto ho sofferto!" Quell’affermazione
allora mi parve troppo categorica, assoluta, quasi masochistica;
nella leggerezza dei miei anni credevo ingenuamente che non per
tutti la vita dovesse essere sofferenza, che forse a qualcuno era
dato vivere nella gioia, e alla morte proprio non pensavo, a
malapena la distinguevo, punto lontanissimo nell’infinità della
vita, certo, poi la vita stessa m’avrebbe insegnato che a nessuno
è risparmiata la sofferenza, e che: La bellezza del mondo ha
due tagli, uno di gioia, l'altro d'angoscia, e taglia in due il
cuore (Virginia Woolf). No, nessuna
vita è priva di dolore (piccolo o grande che sia) e di morte, ché
l’uno e l’altro, in fondo, sono la stessa cosa ( ogni sofferenza
comporta una lacerazione, un distacco, dunque una perdita), e vita
e morte procedono a braccetto, tranne brevi intervalli di tregua. Nel suo romanzo
Anna Santoro c’introduce subito nella dimensione di questo
devastante sentimento a nessuno ignoto, sotto qualunque sembianza
appaia, qualunque maschera abbia scelto, quel giorno, per
mostrarsi, irrompendo nelle nostre vite, sconvolgendole, e ci
sono subito tutte le sue sfumature, tutte le sue manifestazioni:
le lacrime, il pianto, il senso d’impotenza, la frustrazione, lo
scoramento, la rabbia, infine la rassegnazione, l’accettazione, il
superamento, il cambiamento. In una delle
prime pagine l’autrice ricorda un film che molto fu amato dai
surrealisti per la continua oscillazione fra il mondo della veglia
e quello del sogno ( ma un dolore vero, autentico, reale, non lo
si vive sempre un po’ come se fosse un incubo onirico?); il film,
del 1935, del regista Henry Hataway, tratto dal libro “ Mister
Peter Ibbetson” dell’illustratore e novelliere George du Maurier
(nonno della nota scrittrice Dafne du Maurier), si chiamava, in
italiano, “Sogno di prigioniero”. Narrava dell’amore fra Peter e
Mary, che si amavano fin da bambini, amore che non terminava mai,
nemmeno quando l’uomo, dopo aver ucciso il marito dell’amata,
veniva rinchiuso in carcere; i due continuavano ad amarsi e ad
incontrarsi in sogno, e morivano pure insieme, anche se lontani. Ogni volta che
vedevo questo film da bambina, ma anche rivedendolo da adulta, la
sensazione predominante, di fronte alla sofferenza degli amanti
costretti alla separazione, era quella dell’angoscia, era come
essere immersi in un’enorme bolla opprimente; ecco, anche in
questo romanzo c’è la sensazione che la protagonista, messa in
crisi dalla morte del padre, sia come imprigionata in una bolla
angosciante di malessere. Ma l’evento
luttuoso, pur segnando una battuta d’arresto, la pausa,
offrirà alla protagonista l’occasione per riconsiderare, in
spietata, feroce autocritica del proprio modo di essere, tutta la
sua esistenza, mettendo a nudo il disagio, il conflitto, la
diversità, fra sé e il mondo, fra sé e i genitori, fra sé e se
stessa. Relazionandosi
alle figure più importanti della sua vita, il padre, la madre,
l’amato/ritrovato, l’amica americana, attraverso le fasi più salienti della
sua esistenza, snodate per tempi, come in una partitura musicale (
c’è il momento della danza, poi abbandonata; della musica, pure
tralasciata; della fotografia, conquistato interesse), con l’aiuto di
una guida, se stessa bambina (o il suo alter ego?), attraverso una
feroce e faticosa disanima, dopo aver tutto di sé scandagliato, la protagonista, ed il lettore con lei, si libererà
dall’oppressiva bolla; accettando l’evento traumatico, accettando
anche la morte della se stessa che si era creduta, dopo un lungo
travaglio infine si partorirà a nuova vita. Non abbiate
paura di esplorare; senza esplorazioni non vi sono scoperte,
così recita una meditazione del Tao, ed è proprio ciò che accade
alla protagonista al termine del suo percorso interiore, nel
finale del romanzo; in acquisita sicurezza e
consapevolezza, darà libero sfogo alle lacrime ( lacrime
silenziose e lievi che le comunicano la gioia di esserci: vale a
dire di compiere ancora una curva che conduce al nuovo punto
d’inizio, Anna Santoro, “Pausa per rincorsa”, pag.27),
finalmente pronta per la rincorsa.
Francesca Santucci
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