Angela
Mariani
Goa
Gajah
I)
Il
mio
peregrinare
attraverso
l’oriente
ha
certamente
prodotto,
nel
tempo,
qualche
mutamento
interiore.
Non
penso
di
aver
compiuto
viaggi
“avventurosi”
o
di
aver
fatto
sensazionali
scoperte
in
quelle
terre
lontane:
forse
ho
viaggiato,
inizialmente,
in
un
modo
piuttosto
inconsapevole
ma
la
coscienza
che
è
cresciuta
dentro
di
me,
nel
tempo
e
talvolta
a
mia
insaputa,
ha
sicuramente
subito
influenze
da
queste
esperienze.
La
spiritualità
di
cui
parlo
mi
affascina
non
tanto
perché
la
confronto
alla
nostra,
talvolta
spesso
apparentemente
più
tiepida,
bensì
perché
–
come
ho
già
avuto
modo
di
dire
–
rievoca
in
me
le
nostre
stesse
origini
e,
più
vado
avanti
nel
tempo,
più
le
mie
considerazioni
mi
portano
a
ritenere
quelle
radici
comuni
a
tutti
i
popoli.
Coloro
che
hanno
compiuto
viaggi
in
Tibet
o
in
Africa,
o
anche
a
Bali,
come
me,
sono
tutti
concordi
nell’affermare
di
aver
appreso
un
sentire
la
vita,
gli
altri,
e
ciò
che
ci
circonda,
in
un
modo
più
raffinato:
distillato,
direi.
Ciò
che
mi
chiedo
continuamente
è
il
perché
di
questo
differente
sentire.
Qualcuno
parla
di
magia
dell’Oriente,
qualcun
altro
parla
di
fascino
dell’esotico…io
credo
che
tutto
sia
da
ricondurre
ad
una
umanità
meglio
conservata,
in
quei
luoghi,
proprio
perché
ancora
molto
vicina
alla
natura.
Questo
rimanere
in
contatto
con
la
natura,
e
questo
rimanere
immersi
in
essa,
appare
ai
miei
occhi
come
un
movimento
dell’animo
per
ricongiungersi
a
qualcosa
di
più
grande:
un
“sentire”
così
profondamente
umano
che
non
possiede
nazionalità
o
religione.
Un
sentire
di
tutti.
Un’aura
di
femminilità,
simile
a
quella
che
ho
avvertito
a
Bratan,
solo
in
apparenza
più
“dura”
ma
-
in
sostanza
-
semplicemente
più
"solida"
ed
ugualmente
accogliente
e
“ricettiva”,
l’ho
ritrovata
a
Goa
Gajah.
Dopo
aver
abbandonato
la
costa
dell’isola
per
addentrarci
nei
Regni
dell’interno,
siamo
approdati
ad
un
piazzale
dal
quale
si
accede,
poi,
ad
una
scalinata
in
discesa.
Non
sapevo
cosa
mi
attendesse:
un
nostro
amico
del
posto
ci
aveva
solo
accennato
che
ci
stavamo
dirigendo
alla
Grotta
dell’Elefante,
risalente
all’XI
secolo. Scendendo
gradini
un
po’
malandati,
ricavati
nella
roccia,
il
mio
sguardo
si
è
soffermato
su
una
raccolta
di
rovine,
sistemate
in
ordine
all’interno
di
un
rettangolo
limitato
da
pietre,
in
un
ampio
cortile,
a
dare
l’impressione
che
qualcuno
stesse
“catalogando”
i
reperti.
Un
sito
archeologico,
dunque!
Una
grande
fontana
di
pietra
-
un’antica
“piscina”,
direi
–
con
grandi
figure
femminili
addossate
alle
pareti
interne
alla
piscina
stessa
e
che
ancora
versano
acqua
sacra,
è
stata
distrattamente
oltrepassata
da
noi
che
ci
dirigevamo
verso
la
grotta.
All’improvviso,
davanti
a
me,
una
enorme
testa
scolpita
nella
parete
rocciosa:
un
volto
mostruoso
le
cui
fauci
si
aprono
ad
inghiottire
fedeli
e
turisti.
E’
la
grotta
dell’elefante!
All’interno,
fra
pareti
di
roccia
grigio
scuro
e
scarsamente
illuminate,
sculture
di
Ganesha,
il
dio
elefante
caro
agli
Induisti,
e
grandi
lingham
posti
in
nicchie
scavate
in
più
angoli
della
piccola
caverna.
Come
spesso
accade
in
situazioni
in
cui
è
necessario
un
ascolto
più
“sottile”
da
parte
mia,
ho
cercato
di
rendermi
disponibile
per
avvertire
ciò
che
il
luogo
volesse
comunicarmi.
Fra
fedeli
in
pellegrinaggio
e
turisti,
con
cui
oramai
sono
abituata
a
convivere
in
questi
luoghi,
cercavo
qualcosa
di
più
di
quanto
stesse
illustrandomi
il
nostro
amico-guida
e,
piano
piano,
come
sempre
d’altra
parte,
la
mia
“attesa”
del
sentire
non
è
stata
vana.
Ganesha
rappresenta
il
divino
che
guida
all’elevazione
da
ciò
che
è
apparenza
e
da
ciò
che
si
ritiene,
erroneamente,
essere
“l’unica”
realtà
possibile.
E’
la
forza
che
induce
a
meditare
sulla
relatività
della
visione
umana.
Insegna,
insomma,
a
non
fermarsi
ad
una
personale
interpretazione
di
ciò
che
vediamo
ma
ad
andare
oltre,
in
un
ampio
respiro
di
libertà
interiore,
e
–
ancora
una
volta
–
di
fratellanza
e
di
elevazione. La
grotta
dell’elefante
è
un
posto
magico,
secondo
me,
di
una
magia
che
pervade
chi
desidera
avvertirla
e
che
avvolge
in
un’atmosfera
non
meno
sensuale
di
quella
di
Bratan.
Una
femminilità
più
solida,
radicata
e
forse
più
terrena,
come
si
addice
a
Ganesha,
l’aspetto
del
divino
che
siede
su
Muladhara
-
il
vortice
energetico
intimamente
legato
alla
terra,
agli
istinti
ed
alle
passioni
-
trasuda
dalle
rocce
di
Goa
Gajah:
giganteschi
artigli
spostano,
quasi
a
voler
dilatare
l'angusto
accesso,
la
giungla
ribelle
riprodotta
con
dovizia
di
particolari
sulla
parete
rocciosa
e
che
incornicia
il
volto
mostruoso,
per
liberare
-
in
un
ampio
gesto
di
disponibilità
e,
quasi,
di
offerta
-
una
bocca
spalancata
ad
inghiottire
fedeli,
suppliche
e
voti
e
pronta,
anche,
a
restituire
intatto
ma
rinnovato,
ristorato
e
purificato,
chi
lì
ha
trovato
dimora.
Non
una
madre
distruttrice
ma
una
solida
culla
di
accoglienza,
un
approdo.
Nel
fondo
di
un
piccolo
utero,
forte
e
duro
ma
ricettivo
e
rassicurante,
la
rivelazione,
profondamente
liberatrice,
del
messaggio
di
Ganesha!
Poco
distante
dalla
grotta
mi
fermo,
come
se
la
vedessi
per
la
prima
volta,
davanti
alla
piscina
di
pietra
dove
le
donne,
di
pietra
anch’esse,
avvolte
da
raffinati
drappeggi
simili
a
sari
indiani,
invitano
i
fedeli
a
sacre
abluzioni,
alimentando
la
piscina
attraverso
l’acqua
che
versano
dalle
loro
stesse
mani.
Immediatamente
mi
pervade
un
senso
di
atmosfera
rarefatta,
da
film
di
Wenders.
Comprendo.
Comprendo
perché
nel
recarci
verso
la
piccola
caverna,
prima,
avevamo
trascurato
di
soffermarci
alla
piscina:
c’era
un
ordine,
non
manifesto
ma
tuttavia
chiarissimo,
nel
percorso:
era
importante
soffermarsi
“dopo”,
alla
fonte
sacra,
e
non
prima
della
visita
alla
grotta!
Le
cariatidi
femminili
della
piscina
hanno
un
aspetto
dignitoso
e
fiero
ma
anche
disponibile
ed
attento
e
versano
esse
stesse
le
acqua
sacre.
Dalle
loro
mani
fluisce
il
liquido
purificatore,
depositario
e
responsabile
della
vita:
alimento
e
culla.
Quello
che
esse
custodiscono
è
il
“luogo
del
nascere”,
dopo
il
rito
del
congiungimento
avvenuto
nella
grotta!
L’espressione,
seria
e
raccolta
ma
non
austera
ne’
distante,
delle
cariatidi
stimola
in
me
una
fantasia
che
ricerca,
in
vecchi
ricordi,
atteggiamenti
da
“levatrici”
antiche
e
nostrane.
Comprendo
che
non
è
la
grotta
o
la
magia
del
posto
esotico
a
produrre
l’emozione
che
è
in
me
ma
il
messaggio
che
il
luogo
offre
e
–
anche
–
il
messaggio
lasciato
lì,
per
secoli,
da
chi
ha
costruito,
voluto,
quel
luogo.
Immediatamente,
mentre
assaporo
il
vortice
di
magia,
sensualità,
lieve
“esaltazione”
interiore
e
mi
lascio
piacevolmente
travolgere,
il
tutto
si
mescola
a
reminescenze
della
mia
cultura
occidentale:
un
miscuglio
esplosivo,
che
rievoca
“caos
e
stelle
danzanti”
e
genera
una
visione
lucida
e
luminosissima
di
qualcosa
che
non
è
fuori
di
me
ma
nel
mio
stesso
interno,
mi
conduce
a
tentare
quasi
disperatamente
di
fissare
nella
memoria
ciò
che
vedo
ma,
ancor
di
più,
ciò
che
sento,
rivelazione
compresa.
Un
senso
di
rinascita
e
di
rinnovamento
scaturisce
da
quelle
acque,
dopo
la
visita
alla
grotta:
un
comprendere
ciò
che
già
era
ma
che
riposava,
assopito,
in
me,
ed
una
disponibilità
ad
“affidarsi”,
offrirsi,
anche,
necessaria
per
una
completezza
interiore.
Un
sublime,
ancora
una
volta,
ma
un
sublime
forte
e
prepotente,
puntuale,
questa
volta,
che
richiede
un’attenzione
estrema…
A
quel
senso
del
sublime,
a
me
molto
caro,
ancora
lavoro.
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