Racconti
SEMIDEI
Loro, i semidei. Li guardo, ogni giorno,
attraverso i vetri della finestra e più
ancora attraverso la lente rivelatrice del mio
desiderio e della mia rabbia. Hanno le scarpe
da basket, alte alla caviglia; nella mia mente
le visualizzo, mi rappresento ogni gesto per
infilarle e allacciarle. Allento i lacci, li
pareggio tirando un po’ l’uno un po’ l’altro,
stringo forte, faccio il nodo. E poi
visualizzo la tuta, con l’elastico in vita, ai
polsi, alle caviglie; alla fine sono anch’io
vestito così, e sul davanti della tuta la
scritta Boston University, anch’io pronto per
la partita, ma non per giocare. Non ancora.
Ora, vivo nella vita degli altri, dentro gli
altri. La mia immaginazione, esercitata in
anni di esclusione e di rinuncia, è diventata
un senso in più, anzi, il punto di
coordinamento dei miei sensi. Io indosso il
giubbotto nero, tiro su la cerniera,
ascoltandone il rumore familiare, consueto.
Prendo il casco, lo sento fra le mie mani, ne
sento la compattezza lucida, l’odore, il
colore. Metto in moto e sfreccio via, vedo coi
loro occhi la strada, la gente, gl’incroci, e
sento col mio cervello il vento, la
prospettiva della strada che si apre e si
avvicina, la gioia inesprimibile di un
benessere fisico, la mente che si acquieta in
questa sensazione come in un mare tranquillo. Chi entra nella
stanza mi vede immobile, apatico, assente. Ma
non è vero. Aspetto. Con odio, con pena, con
invidia, con rancore, aspetto che tutto questo
finisca. Sono in lista
per il trapianto. Uno dei semidei avrà un
incidente, e questa volta chiameranno me. Loro si credono
immortali.Non hanno motivo di non crederlo.
Non si sono mai confrontati con il dolore, la
malattia, la paura. Non conoscono l’odore
degli ospedali, delle sale d’aspetto, non
hanno mai visto nessuno dei quadri che il
famoso professore espone in quelle stanze, i
quadri mostruosi su cui si è fissato, si è
sovrapposto come una vischiosa ragnatela, lo
sguardo di centinaia di occhi che non hanno
veduto forma né colore, nulla oltre l’angoscia
e l’attesa. Semidei. La
vita non li ha mai traditi, ed è questo il
segno della loro natura che partecipa del
divino. Non c’è niente in comune tra loro e
una sedia a rotelle, tra loro e un letto
d’ospedale. Quelli che scoprono di colpo
questa realtà, il doloroso miracolo,
spariscono dall’Olimpo, precipitati nella
valle buia dove Silenzio e Ricordo, i mastini
del tempo, fanno buona guardia coi loro denti
aguzzi. E così, ciò che accade di continuo non
è mai accaduto. Io conosco la
realtà per intero, niente della vita mi è
estraneo. Non giocherò la roulette russa ai
semafori, non percorrerò in controsenso
l’autostrada, non mi stordirò di musica e di
crack. Conosco tutti i nascondigli della
morte, e non ho voglia di stanarla. La caccia per
me è ancora da iniziare, e l’emozione è il
vento nella faccia, il sole sulla pelle, le
tracce da mischiare e confondere per
prolungare l’avventura. Loro non hanno
immaginazione. Vivono un tempo tutto fisico,
pieno di impegni senza importanza, di giochi
senza regole, di incontri senza conseguenze, e
la loro mente non sa soffermarsi in nulla che
non sia presente e reale. Sono bloccati in
loro stessi, incapaci di entrare in altre
vite. Loro non saprebbero entrare in me, e
sedere con me in questa poltrona, e far
muovere la penna sul foglio, con me, e con me
guardare attraverso il vetro spiando le mosse
dei miei pensieri. Non saprebbero neppure
provare pena per me, saprebbero soltanto
negarmi, negare il mio diritto di soffrire e
di esistere. Ma un giorno questa impossibile
comunione avverrà ugualmente. In un rito senza
sacralità, riceverò il crisma della loro
essenza divina. Allora potrò
ricongiungermi a me stesso, nella corsa sulla
spiaggia, o in un sentiero di montagna, o nel
campo da basket. Eseguirò,
coincidendo infine col mio desiderio, i gesti
mille volte provati. Comprerò una
moto, il giubbotto nero con la cerniera, il
casco blu e rosso. La caccia
inizierà, anche per me. Lunga, cauta,
piena di regole. Mi aspetteranno
invano, là, dietro i vetri.
NOTTURNO
“Rip the lark/and you’ll find the music…” Divina Dickinson. Non
c’è altro, dopo Leopardi. Mi ricordo di prima,
quando nessuno sapeva niente di me. Leggevo
tutti quei saggi su Leopardi. Aveva scritto
poesie, e così esisteva. Per secoli lettori e
studiosi avrebbero risposto alla sua ricerca
di comunicazione, di contatto. Leopardi amava la
luna e il gelato. Leopardi era un uomo comune,
un uomo normale. Era un uomo incapace di avere
una donna. E’ sgradevole a vedersi, e si lava
poco. E’ un ragazzo che non tollera di toccare
un coltello. E’ un bambino che traduce dal
greco. La biblioteca è scura, la casa è scura,
e per assuefarsi al buio bisogna acquistare
occhi da uccello notturno, e l’orientamento
sghembo del pipistrello. L’amicizia con
Ranieri, forse omosessuale. Il conte Monaldo
non ha tempo, Adelaide non lo abbraccia mai. E
la mancanza di fisicità, l’assenza di rapporto
col corpo, contraddistingue ogni sua
esperienza, risolve in frustrante astrazione
ogni evento, anche il più passionale e
concreto. Ma ora forse sto parlando di me. “Or poserai per
sempre/stanco mio cor…Disprezza/te, la natura
il brutto/poter che ascoso a comun danno
impera…” Ho provato disprezzo,
sì, di me stesso per aver avuto speranza,
fiducia. Per aver offerto alla loro
insensibilità onnivora i miei ricordi, le mie
confessioni. Il mio slancio, il mio stupore.
Ho provato vergogna come di essermi denudato
di fronte a una donna indifferente –peggio,
pronta a ridere di me. Le sue labbra, piene
e volgari, rosse lucide di scherno. Il
lenzuolo spiegazzato e una macchia bruna sulla
tappezzeria. Io non sono, io non voglio essere
qui. Io odio, come odiano le rose vermiglie
nel vaso di cristallo, a splendere e
soffocare, nei loro petali carnosi l’urlo
rosso di un insulto, il velluto il contatto la
carezza il brivido il velluto, il palco del
teatro, fuori, io sono fuori, sono la fioraia
con lo scialle grigio, le rose nel suo cesto
prima del cristallo, la fioraia che vende le
spine, i miei occhi sono i suoi occhi e io so
che mi odia, perché lei è il fiore
prigioniero, ti odia, con sprezzo guarda le
tue scarpe lucide, poche monete per un mazzo
di spine. Che cosa poteva importarti del
trapezista vestito d’oro nel vecchio circo
sghangherato, delle sue braccia aperte di
contro al soffitto grigio, il volo dell’angelo
nel cielo chiuso soffocante, i suoi occhi
bistrati spalancati a guardare in faccia il
sogno. Io, però, l’ho seguito al ritmo di una
musica ambigua, perché non ho incontrato
nessuno capace come lui di disperdere con un
solo ampio gesto il puzzo di letame e di
segatura che emana dalla gabbia della viota
comune. E’ una casa, una casa
piccola nella gola di monti come un quadretto
naif. La vita comune è una casa con un cortile
piccolo e io scivolo giù in caduta libera, in
picchiata, libero, sono libero io, sono il
falco io adesso, in verticale dentro la gola
stretta di montagne, vedo con gli occhi del
falco, in soggettiva, giù, giù, e ho gli
artigli invece delle dita, non posso scrivere
più, sono libero ora, voglio anch’io la casa,
il cortile piccolo. Io sono un uomo normale,
compro il pane, faccio il caffè, scambio due
parole col macellaio, col farmacista. Non ho
più bisogno di piacerti, ho diritto a non
dover piacere, nessuno conosce nessuno,
nessuno ama nessuno. Io non ho più bisogno di
piacere, di amore. Chiamate amore la squallida
trappola della natura, il costruito istinto
senza passione, la grottesca bestialità che
profana la tenerezza implume della notte. “La parola è la rete
per prendere i pensieri
O pescatore, la
tempesta le tue reti ha strappato
Più non porterò la
mia barca sul mare,
la mia rete non
voglio riparare
La mia barca nella
sabbia incagliata
Più non si chiama
Sirena, si chiama Medusa”
Così ho potuto
raggiungervi. Voi no, non mi avete raggiunto;
ma ora mi cercate. Quando toccò a me
nascondermi, continuaste il vostro gioco senza
accorgervi neppure della mia assenza. Vi ho
attirato, adescato con gl’indizi umilianti
della mansuetudine e del sorriso. Giocavate
bene anche senza di me. Ora sono il padrone
del gioco e mi cercherete e mi inseguirete
fino a trovarmi come io ho trovato voi. Io che
ho abitato vicino alla vostra porta. Non
abbassavate la serranda e la luce delle vostre
stanze col suo bagliore feriva le mie pupille
di schiavo abituato alle tenebre della
miniera. Voi guardate dalla finestra la strada
buia, e il buio conferma la luce, il calore
della stanza. Ma non avete mai
pensato come muta la prospettiva quando gli
sguardi s’incrociano, e non avete visto dal
buio della strada la finestra illuminata, le
figure che si muovono come in un acquario, i
colori della stanza e i vestiti e la
provocazione di quel richiamo, l’esclusione
dalla luce è l’evento che spegne la luce-Bella era, era bella
la ninfa dai capelli di miele, finchè la vidi
nel pulviscolo del plenilunio, finchè la
lampada non scoprì nella prospettiva verso
l’alto il segreto di ombre aggrovigliate,
finchè le labbra divennero più piene e gli
occhi più scuri, e così diversa da mia madre
col lume acceso quando le ombre su di lei, su
lei tracciavano i chiaroscuri del mistero e in
atto di sorpresa e di rimprovero accanto al
mio letto “Non dormi?” passava velando il lume
con la rosea mano, un fascio di buio è per gli
angoli di dentro, la falsa immagine il doppio,
il negativo da non sviluppare. Nella solitudine del
buio, la luce nemica. La luce da spegnere, il
dolore. Ho cercato di condividere il mio
dolore. Per esistere, perché il mio dolore
esista. Io voglio sapere se ci sei. Non
quando ti estranei a te stesso, non quando
ridi e chiacchieri e ti travesti o interpreti
un’espressione più volte provata. Io voglio il
viso vero che hai, voglio la verità e non la
menzogna, voglio la tua faccia e non la
maschera, voglio sapere chi sei, se ci sei, se
sei vero. Io ci sono, guardami. Guardami! Nella notte che
continua, un’onda buia si rifrange
all’infinito. Qualcuno mi verrà
incontro. Inconsapevolmente cercandomi, per
specchiarsi nel più profondo dei laghi. Vorrei che fosse
stato diverso il mio incontro con la notte. Ha due facce la
notte. Leopardi le conosceva
entrambe. Ma lui aveva la parola, il Verbo. Il suo inno al dio
assiro del Male, mai finito. Sì, il suo inno
incompiuto. Io lo conosco. Ma non voglio più
spiegare, parlare. Non riparerò le mie
reti. Sono un cacciatore, ora.. La luna è così
bianca, così immobile, sospesa. Non c’è strada per
me, solo il sentiero d’argento e di
ghiaccio.Dall’aria che mi soffoca, riemergerò
a respirare la profondità del buio. Eros o Thanatos. A
vacuo natura abhorret. Non c’è nulla tra Eros
e Thanatos. “Squarcia
l’allodola/e troverai la musica…”
|