Antonio Messina
L'ombra nella
bottiglia
Primavera, Aprile. Anno
imprecisato.
Il cielo era magnifico, libero
da nuvole al centro, velato appena nella parte
inferiore da uno strato sottile di polvere
luccicante. Stelle a grappoli, e onde lievi a
levigare il grande cristallo: la luna si cullava tra
gli scogli, e foglie s’agitavano, tentennavano,
percorse da refoli di vento sottile. Luce lieve, onde, piccole e
schiumose, suoni ignoti si liberavano nell’aria
colma di profumi, e la spiaggia appariva desolata e
silenziosa. Solo il mio dolore, quello sentii
scorrere, una sensazione nuova, e la consapevolezza
che senza di lei avrei perduto la mia essenza, io
smarrito, io follia, l’alieno. Ricordai con nitore gli ultimi
istanti della conversazione, il viso di lei, quegli
occhi sinceri e profondi, il suo passo leggiadro, le
mani piccole e ben curate. Sentii il suo profumo,
agonizzai nel respiro del suo cuore. Il cielo era
ancora magnifico, e il vespero si diluiva nelle
pozzanghere, subito dopo la pioggia, quella pioggia
lenta che martoriava la spiaggia e feriva a morte
l’anima mia. I pensieri oscillavano nel
vuoto, istanti, l’addio, e ancora i suoi occhi neri
profondi e le sue parole intrise di nulla, cattivi
presagi, già all’inizio, mentre le sue labbra si
muovevano ritmicamente, sembravano fuochi fatui, ed
io non ascoltavo, inseguivo invece il volo delle
rondini nell’aria umida e malaticcia. “È finita: non posso
continuare ad amarti”, disse lei, allungando lo
sguardo oltre l’orizzonte. Io immobile, essere fragile,
cristallo che si frantuma e si ricompone, io adesso
ombra a ridosso dell’ombra, parvenza, lacrima del
cielo. Riuscii a sussurrare qualche
frase distratta, per tentare di farla ragionare,
sperando che lei cambiasse idea, ed intanto
osservavo i suoi capelli frammentarsi tra le onde,
il suo viso colare dalle rocce, il cuore esploderle
tra i seni, ed io immobile, lontano in uno spazio
racchiuso nell’evanescenza, dentro parole senza
significato, ancora solo, scia di luce in agonia,
acquerello. “Io ti amo, Annette: non posso
vivere senza di te”. Lei rimase impassibile, con
gli occhi persi nel vuoto, raccolta dentro una veste
attillata, mentre un pezzo di cielo svaniva nel il
blu cobalto del mare, e la mia anima delirava, occhi
accesi e spettri nel cuore. “Sento una nuova melodia,
musica, amore, nuovo e fecondo respiro, un’altra
emozione oltre, oltre il tuo viso: non posso più
amarti”, continuò lei, sbattendo le palpebre. “Ma…”, risposi, mentre da
lontano l’oceano brillava, al centro, a cento passi
dal molo e le onde rincorrevano i gabbiani, per
l’aria salivano, sembravano spruzzi di luce in
miniatura. “Non c’è sentore d’eternità
nelle passioni, e ogni anelito è sogno di carta,
desiderio destinato a perire, incertezza, falsità,
ombra a ridosso dell’ombra: l’amore si svela,
s’allunga tra le ali del vento, diviene delirio, poi
al tramonto s’occulta e scompare. Nulla è certo
nell’incertezza, nulla che possa durare per
l’eternità, tutto è destinato a perire, frammento,
goccia di rugiada che al mattino svanisce, quando il
primo raggio di sole con forza ne dissolve la
traccia. “Annette, ti prego”, balbettai
con gli occhi colmi di lacrime. “È finita, è tempo che io
regali l’altra metà del mio cuore. Ancora una volta:
addio”. Rimasi immobile, luna e luci
oramai svanite, la sera che si cullava, il dolore
sentii scivolare nel cuore, e il vento vidi alitare,
mentre a grappoli le stelle già depositavano luce
tremula, e gocce sulla sabbia smarrivano la traccia. “Annette!” gridai, nel
disperato e vano tentativo di farle cambiare idea. Un oceano di silenzio oltre il
molo, qualche barca, e il cielo intanto fagocitava
le ultime stelle, e l’uragano s’approssimava, gonfio
il mio cuore di tragedia. “Non c’è sentore d’eternità
nelle passione”, gridò lei da lontano, ed io ad
osservare le onde tramutarsi in angeli e gli angeli
oscillare e frantumarsi e riapparire, lontano, in un
luogo che sogno non è, né realtà, un striscia
d’incertezza che spesso si confonde, ci confonde, ci
turba. L’eco di una voce solitaria,
un gabbiano, l’urlo del vento, poi l’uragano. Rincasai quando era notte
fonda. Dopo il canneto il fiume, qualche stella
sospesa sugli steli, il mio dolore e la stradina
illuminata, poi aprii la porta, accesi la luce e mi
buttai sul divano. Le pareti sembravano di burro,
e l’aria all’interno era irrespirabile. Aprii la finestra e buttai
l’occhio distrattamente oltre il davanzale. La luce
dei lampioni si sdraiava esile sulla strada, e
solitudine correva lungo i marciapiedi. Richiusi la
finestra con forza, girai i tacchi e m’incamminai
con passo spedito verso la cucina. Vidi una Ballerina di Vetro
sostare immobile sopra la credenza. Un attimo di
titubanza, poi adagiai tra le gambe la bottiglia: il
tappo esplose nell’aria con fragore, liberando un
suono stridulo e colmo di disperazione. Afferrai un
bicchiere: particelle, sogni in miniatura, il
passato, tutto in un attimo svanì nella gola ed
anche il mio dolore, scivolò dentro, lentamente,
inesorabilmente. “Non c’è sentore d’eternità
nella passione: il mio cuore chiede un altro amore”. Presi la bottiglia, la rigirai
delicatamente tra le mani, poi, stringendola con
passione, cominciai a buttar giù quel nettare
divino. Un sorso, ancora, ancora uno, fino a quando,
trascorso qualche minuto, di quel liquido dorato
nella bottiglia non rimase alcuna traccia. Alzai verso l’alto la
bottiglia, e guardai attentamente il fondo: solo
trasparenze vidi, e il viso di lei oscillare dentro,
mentre il cielo all’esterno era adesso talmente
espressivo che si poteva racchiudere tutto in un
solo respiro. “Addio”. Ancora lei, il ricordo di
quella voce querula. Rimasi immobile, io frammento
di luce, goccia in agonia, e in quella notte avara
d’emozioni persi gli ultimi pensieri.
Ancora, non c’era tempo per
pensare, né ordine da custodire, né sogni da
inseguire: il desiderio era svanito sulle ali delle
comete, e a parte quel triste ricordo che ignobile
saltellava nella stanza, null’altro era rimasto a
farmi compagnia. Un’altra bottiglia rigirai tra
le mani, lucida, altera nella sua ignobile bellezza Aprii la finestra: il tappo
esplose ancora con fragore. Un sorso, due, poi ancora uno.
Adesso le pareti oscillavano e il ricordo di lei
fluiva lento. Sussultò ancora il mio cuore, e
disperazione frammista a nebbia sottile invase la
stanza. L’ultimo sorso, poi il cielo
svanì. Silenzio intorno, qualche stella, la nebbia
che fitta invase la stanza. Caddi sul divano, e sogni di
carta presero il sopravvento.
Aprile. Due anni dopo
È splendido il cielo questa
mattina, lieve il respiro del vento, le rondini
volano basse, e la spiaggia brilla come uno
smeraldo. Il mare s’apre alla luce, delicatamente,
in questo mattino inconsueto e le onde danzano e,
schiuma brillante traversa il molo. L’aria profuma
di salsedine, libera scorre tra i cespugli, e il
senso dell’esistenza s’occulta e traballa: oltre
l’orizzonte riesplode, quasi luce appare, ma solo un
attimo, è solo un frammento, un dolore, il mio,
quello di sempre. Sono solo, perduto in un
ricordo che lacrime calde racchiude; apro gli occhi,
sbadiglio, e l’occhio butto distrattamente oltre il
molo. “Il mio cuore rincorre un
altro amore”. Il ricordo di lei m’assale,
oscilla appena la sua ombra, la vedo in lontananza.
Mi alzo in piedi, traballo, nulla intorno, a parte
un velo di nebbia, il solito mare, la spiaggia e
un’altra bottiglia. Gli amici si sono allontanati,
ed anche la mia vita appare lontana, sento qualcosa
che m’appartiene, il suo respiro, poi tutto
svanisce, nell’ombra. Oltre il molo intravedo
qualche pescatore armeggiare con le reti, ancora il
sole, la solita spiaggia e le rondini. Di me non è rimasta traccia.
Ho smarrito il passo dell’esistenza, il dolore è
rimasto, ruvida la mia pelle, i pensieri
intorpiditi, il corpo flaccido, avvolta l’anima mia
di filo spinato. C’è un piccolo bar vicino al
molo. La costruzione è bassa, semplice nella sua
desolante architettura; le pareti all’interno sono
colorate di rosa pallido, e sedie di vimini
circondano il bancone. Il mio amico Sprizz conosce
tutti i suoi clienti, con garbo li tratta, saluta
con educazione, e ad ogni cenno, versa il solito
liquido. Sprizz, ad ogni mia fugace
apparizione, scrollando il capo, usa sempre la
solita espressione. “Dovresti smettere di bere,
mio caro”. Io allungo un sorriso
distratto, prendo il bicchiere tra le mani, e senza
pensare butto giù tutto d’un fiato quel nettare
divino. “Non puoi continuare così,
amico mio”. Sorrido ancora, e il mare
oltre la finestra traballa, e l’odore di salsedine
penetra nelle narici. Un altro bicchiere, ancora
uno, un altro ancora. “Sono le tre del pomeriggio,
amico mio”. “Ho ancora i suoi occhi
incollati al mio cuore”, balbetto, rivolgendomi a
Sprizz. Il mio amico appena sorride,
con gli occhi lucidi e il viso ampio e luminoso. “Dovresti smettere di bere e
dimenticare”, risponde lui; e tristezza traballa in
quegli occhi intelligenti. Sono anch’io di marmo, oramai
non ho altro da fare, a parte bere e inseguire i
miei sogni, altro non odo, vento, fantasmi, non uno
ma una moltitudine, sospesi a fluttuare tra le
nuvole. Il mondo si è capovolto. “Sprizz, per favore, dammi la
solita bottiglia”, chiedo, cercando nelle tasche gli
ultimi spiccioli. Lui mi guarda, tentenna, si
caccia sotto il bancone, e prende un’altra
bottiglia. “C’è sempre l’ombra, Sprizz
?”, chiedo ridendo. “È sempre la solita, amico
mio, quella che ti condurrà per mano verso la
morte”. “Ciao, Sprizz” “A presto, amico mio”,
risponde lui con gli occhi tristi. Il cielo è limpido, aria lieve
gira intorno alle cose e la spiaggia riluce come uno
smeraldo. Mi siedo sul molo, tolgo
l’involucro di carta, prendo tra le mani la
bottiglia. Un sorso ancora, l’ultimo,
prima di rincorrere con lo sguardo una rondine
solitaria, mentre gli spettri oscillano, l’oceano, e
gli occhi di lei che sguazzano tra le onde, e io
sono lontano, non uno, ma una moltitudine di ombre e
lei non c’è, non verrà, mai ritornerà ad ascoltare
l’urlo disperato del mio cuore.
Antonio Messina, settembre
2004.
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