Antonio Messina
La marea
Il fiume
scendeva lento incespicando tra le rocce ben levigate che
ogni tanto s’ergevano sul pelo dell’acqua. Il cielo
limpido copriva di luce le cose, una luce brillante e
invasiva che penetrava negli occhi e nel cuore. Il
silenzio di un vento ancora dormiente lambiva gli
strapiombi e giù l’oceano s’udiva, voci di terra, antichi
lamenti, un fendere di spade che ricordava battaglie,
libertà, desiderio di cambiare un mondo che era
sprofondato nell’oblio. L’erba rigogliosa oscillava
appena, un tremolio magnifico che rendeva il luogo
palpitante, sembrava che quel villaggio ai confini del
mondo fosse improvvisamente divenuto un mondo oleoso, un
luogo dove il respiro della vita avrebbe nuovamente dato
vigore alle cose. Nerver si era appena svegliato, travolto
da quell’oceano di luce e silenzio. La sua casa era
rimasta miracolosamente in piedi, forse perchè il fato
ancora una volta era stato benevolo con lui, o forse
perchè qualcuno aveva deciso che solo un guerriero, uno
solo, avesse ancora in dono la vita. Nerver si
stiracchiò, prese la coperta e la depose nel baule, poi
s’incamminò verso la porta. L’oceano si cullava e nuvole
bianche oscillavano sopra le cime. Tutto era successo
in un battito d’ali, l’onda assassina che aveva invaso la
spiaggia, l’orrore stampato sui volti dei pescatori ed
appresso la morte e la disperazione, il pianto dei
sopravvissuti, l’urlare muto e disperato dell’oceano che
forse si era pentito ed era rientrato, spazzando nella
ritirata tutto le poche cose sopravvissute. In un battito
d’ali tutto si era dissolto tra schiuma bianca e fetore e,
l’entroterra s’era tramutato in cimitero, un luogo
orribile dove le anime appena dipartite vagavano alla
ricerca di una degna sepoltura. Nerver aveva osservato
attonito il disastro, aveva osservato la gente
terrorizzata correre verso le colline nella speranza di
sfuggire all’immane tragedia. Poi l’onda era arrivata
ancora, ancora più alta e distruttiva e gli ultimi lamenti
erano stati spazzati via, le ultime voci s’erano come
sopite e, nulla era rimasto di vivo sull’entroterra.
L’isola era sperduta nell’oceano, un lembo di terra quasi
dimenticato dagli uomini, lontano e inaccessibile. Nessuno
nel mondo moderno avrebbe saputo dell’immane tragedia, né
aiuti o uomini in divisa sarebbero venuti in soccorso:
nulla era successo, nulla che potesse ricordare che un
gruppo di pescatori erano stati risucchiati dall’oceano
che si era tramutato in mostro, quello stesso oceano che
un attimo prima e per secoli aveva regalato alla gente
splendore e vita, sostentamento, luce e bellezza, quell’oceano
che adesso sembrava piangere di disperazione. Nerver
rimase qualche minuto ad osservare l’orizzonte, poi
ridiscese il sentiero, piano e con il cuore in tumulto.
Arrivò sulla spiaggia dopo pochi minuti. Lo spettacolo era
orribile: barche sventrate dalla furia delle acque ed
adesso aggrappate ai rami di quercia, corpi senza vita
avvolti dalla fanghiglia, pezzi di mobilio, fotografie
d’antiche esistenze spezzate, pentole: l’umanità era stata
ferita a morte, il passato e il presente adesso non
avevano più significato, né gioia si palpitava nell’aria,
mentre l’oceano d’azzurro brillava, sembrava a volte
scuotersi, somigliava ad un guerriero che umiliato, non
sapeva se chiedere perdono o invece dissolversi per la
vergogna. Le onde spettri sembravano, spettri in
ginocchio sulla spiaggia martoriata, spettri possenti che
nella preghiera e nel silenzio cercavano quel perdono che
nessuno poteva condividere, quel perdono che solo l’unico
sopravvissuto adesso percepiva.
Silenzio, questo s’udiva, impercettibile e lamentoso,
sembrava che le anime fossero ritornate dal ventre
dell’oceano, ed adesso in attesa sulla spiaggia, cercavano
qualcuno che potesse dar loro una degna sepoltura.
Nerver chiuse gli occhi, mentre il vento cominciava a
scuotere l’oceano e una pioggia lenta già scendeva lenta
dal cielo. Guardò in fondo, oltre la scogliera l’ultimo
guerriero, guardò attentamente per cercare tracce di vita,
guardò sperando di non essere l’unico sopravvissuto, poi
s’incamminò verso la collina, sperando, sperando nella
misericordia di dio, quel dio misterioso che prime ferisce
e poi desidera d’esser perdonato. L’aria umida leggermente
profumava di salsedine, e l’olezzo degli animali sventrati
dalla furia dell’onda assassina saliva per l’aria, un
fetore frammisto a rabbia e disperazione. Nerver attesa
qualche attimo e prima di rientrare in casa si fermò sulla
sommità della collina, solo, racchiuso dentro irritanti
pensieri di desolazione. Lui si girò di scatto,
buttando l’occhio intorno alle cose, con le mani aperte in
quel cielo pastello e la mente irrigidita. Nerver
nell’attimo non si accorse che una lunga fila di persone
dal mare proseguiva verso la collina: donne con i volti
luminosi e vecchi arzilli con le folte barbe impastate di
salsedine, e piccoli dai corpi delicati e aggraziati.
Indietreggiò Nerver, indietreggio, poi vide la moltitudine
e, nel tentare di fuggire rotolò sul fianco della collina
e terminò la sua folle corsa proprio sulla spiaggia.
“Nerver, Nerver, per l’amore del cielo, aiutaci…” – disse
con voce fievole la donna corpulenta che adesso in piedi
sostava proprio davanti a lui. Nerver non si perse
d’animo, cercò d’evitare la paura, consapevole che
qualcosa di straordinario era successo, certo che non
c’era nulla di cui preoccuparsi. Adesso non era solo,
quelle strane presenze erano venute dall’oceano, fatto
alquanto insolito naturalmente, ma lui non badò alla cosa,
felice di non essere solo, felice che l’isola si
ripopolava, che l’isola avrebbe rivisto la luce, la pace,
l’amore e, nuova bellezza. Nerver attese, si alzò e,
dopo essersi toccato le gambe e le braccia insanguinate,
fece cenno alla donna di seguirlo.
“Nerver, Nerver, allora non capisci…” – disse la donna
corpulenta, sollevando gli occhi al cielo, forse in segno
di devozione, forse ad invocare ancora la presenza di dio.
Lui attese qualche istante, mentre il tratto di spiaggia
antistante la collina s’era già colmato e quelle strane
presenze aleggiavano come fantasmi, sembravano piccole
fiammelle, tutte pronte e in attesa di qualcosa che doveva
ancora avvenire. Nerver si portò le mani tra i capelli,
mentre un vocio indistinto s’alzava per l’aria e molti
bambini già giocavano e scherzavano, si rincorrevano tra
le onde, danzavano come fantasmi sui relitti delle
barchette martoriate dall’onda assassina. Nerver non si
perse d’animo nemmeno in quell’attimo, anzi s’illuminò,
trovò vigore e nuova energia. Il suo desiderio era chiaro,
in lui c’era la speranza che l’isola potesse ritrovare
l’antica luce, Nerver pensò che quelle apparizioni fossero
opera del destino e si convinse che non c’era nulla di
male ad assecondare anche quella voce che continuava a
comunicargli che forse stava diventato folle.
“Nerver, sei rimasto da solo e solo tu potrai esaudire il
nostro desiderio”, continuò la donna. “Di quale
desiderio parlate, signora?” – disse lui, felice per un
verso, dall’altro terrorizzato dalla stranezza
dell’evento. Sulla spiaggia il vespero adesso
s’agitava, tra le onde aggraziate invece il vento si era
insinuato e aquiloni d’ombra già solcavano quel cielo
azzurro e maestoso. C’era quiete intorno alle cose e si
palpitava preghiera e perdono, amore tra la terra fangosa,
oltre la collina, sui legni delle barche sventrate, dentro
i sorrisi lievi di quelle strane presenze spuntate
dall’oceano. Nerver attese prima di prendere una
decisione, anche se non intuì quale desiderio doveva
esaudire, non capì all’istante la natura di quelle
presenze che adesso sostavano come foglie accarezzate dal
vento sulla spiaggia e che sembravano a volte onde, a
volte fantasmi e nell’attimo seguente di tramutavano in
essenza, sparivano per riapparire ancora, immateriali e
altere come i fuochi fatui. Nerver non si perse d’animo,
sbuffò un paio di volte poi s’incamminò spedito verso la
collina.
“Nerver, Nerver, non puoi andare senza di noi, non puoi
lasciarci marcire sulla spiaggia: noi abbiamo bisogno del
tuo aiuto, sei l’unico sopravvissuto e solo tu potrai
aiutarci, solo tu, mio caro…” Nerver continuò a
camminare, continuò a scalare lo stretto sentiero che
s’arrampicava fino all’abitazione, ogni tanto si voltava
nella speranza che quelle presenze sparissero, oramai
certo che quella catastrofe aveva segnato il suo animo. Si
convinse d’esser folle Nerver e prima d’aprire la porta,
girandosi, osservò con molta attenzione la spiaggia,
liberò l’anima nel vento e attese che quelle presenze
salissero verso la collina, salissero a cercare pace e
degna sepoltura. Nulla avvenne e Nerver s’introdusse in
casa, sollevò la pesante coperta e s’infilò vestito sotto
le lenzuola. Il vento s’era fatto impetuoso e la
capanna traballava, tutto sembrava avvolto da una coltre
di mistero all’esterno; Nerver attese, madido di sudore,
attese che qualcuno bussasse alla porta, attese il viso
cereo della signora corpulenta, forse attese che anche la
morte bussasse alla porta. Passò il tempo, giorni e
giorni tutti uguali, il solito vento ad agitar gli steli,
la stessa luna a brillare tra le onde dell’oceano, lo
stesso respiro a stendersi sulle cose e Nerver ad
aspettare, sempre, che qualcuno finalmente bussasse alla
sua porta. Passarono gli anni e Nerver divenne vecchio,
passarono i gabbiani varie volte e lui osservò stupito il
loro volo, osservò l’isola mutare aspetto, le foglie
rinverdire, la scogliera proiettare luce sulla collina, e
lui ad invecchiare sempre in attesa che qualcuno bussasse
a quella porta. Nerver attese invano, giorni e giorni,
interi pomeriggi a cercare tra le barche, mattini e
mattini a lavorare per rimettere ordine nell’isola
smarrita in quell’oceano sconfinato. Prima d’invecchiare
Nerver portò a termine la sua missione, esaudì nel tempo
il desiderio delle anime, mentre l’oceano osservava quasi
commosso da tanta smisurata passione. Nerver morì una
mattina di novembre, mentre un sole pallido s’alzava
dall’oceano e una pioggia insistente martoriava la
spiaggia. Quel giorno, proprio quel giorno di novembre i
soccorsi arrivarono, vennero uomini in divisa a cercare,
ma nulla trovarono. Solamente dopo attente perlustrazioni
e dopo molti giorni di duro lavoro, una notte e quasi per
caso videro un uomo leggero aggirarsi nel piccolo
cimitero. L’uomo vestito di bianco, vagava come spettro
tra le tombe, accendeva fiammelle, portava fiori e
immetteva acqua pulita nei vasi. Il dottor Ikoto
incuriosito dello strano fenomeno, una sera s’appostò
oltre il basso muro di cinta del piccolo cimitero, poi
attese che l’uomo apparisse. Nerver arrivò con passo
leggiadro, arrivò quasi danzando, s’inginocchiò ad ogni
tomba e in ogni tomba portò fiori e speranza, in ogni
sorriso passato depose un fiore, in ogni lacrima antica
rivide l’anima dell’isola, mentre il silenzio aleggiava e
una luna lieve si cullava, oltre le nuvole, nuvole bianche
che profumavano d’eternità. Il dotto Ikoto attese
ancora qualche istante, poi inchinandosi riprese la via
dell’accampamento.
“Allora, dottor Ikoto, avete visto qualcosa di strano al
piccolo cimitero?” – chiese il tenente, vedendolo
rientrare. “Nulla, signore. Nulla d’inconsueto”,
rispose Ikoto, pensieroso. Se vi capita di smarrire la
rotta, o se una notte sognerete una piccola isola smarrita
nell’oceano, sbarcate idealmente sulla rive e con passo
lesto, la notte, proseguite oltre la collina, proseguite
e, poi fermatevi al piccolo cimitero. Nerver arriverà
con i suoi mazzi di fiori, ad accarezzar le lacrime di un
tempo, a portare conforto, sosterà per un’ora intera nel
piccolo cimitero, s’inchinerà ad ogni tomba e se voi
allora penserete d’aver visto un fantasma, subito dovrete
cambiare idea. Nerver non è uno spettro, Nerver è il
guardiano, il custode dell’anima, e del suo tempo.
Antonio Messina, gennaio 2005.
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