Castellammare di Stabia
(NA), Longobardi, 2011
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PREMESSA
Rivolgere l’attenzione a una figura come quella di Isabella Morra (o di Morra),
petrarchista lucana del Cinquecento, significa affrontare un aspetto marginale
nella storia della letteratura italiana, ma di una marginalità significativa. La
figura di Isabella riesce, infatti, a farsi portavoce, ancora oggi, di un
messaggio di speranza, di parità, di coraggio, di libertà, legato
all’“universalità” del linguaggio poetico. Una voce senza corpo, un nome senza
volto. Questo è, in fondo, ciò che la storia ci ha tramandato di questa
sventurata “poetessa fanciulla”, rimasta nell’ombra per quasi quattrocento anni
fino alla “riscoperta” di Benedetto Croce, su chiaro invito di Angelo De
Gubernatis, agli inizi del XX secolo, che l’ha restituita al suo paese natale,
Valsinni, l’antica Favale, riportandola alle sue radici e al posto che le
spettava, di diritto, nel panorama letterario, e stimolandone così l’attuale
interesse e fioritura di studi, saggi, romanzi, versi, canzoni, dipinti,
sculture, opere teatrali e cinematografiche; un interesse legato, innanzitutto,
alla sua tragica vicenda terrena, che ne ha fatto un’icona dell’oppressione
femminile, un caso di vocazione frustrata, negata dall’umana brutalità.
Nata da antica famiglia baronale, appartenente alla nobiltà napoletana del
seggio di Capuana e risalente addirittura ai re normanni che secoli prima
avevano dominato incontrastati nel Meridione, sulla vita di Isabella,
terzogenita di otto fratelli, ebbero a incidere profondamente le drammatiche
lotte, svoltesi nei primi decenni del secolo XVI, tra Francesco I e Carlo V per
il predominio sul Regno di Napoli. Ne pagò, per l’appunto, le dolorose
conseguenze il padre Giovan Michele, signore del feudo di Favale, che, essendosi
schierato dalla parte dei vinti ovvero dei Francesi e per sottrarsi al processo
di alto tradimento, cui era stato imputato, fu costretto a rifugiarsi esule alla
corte di Parigi, dove l’avrebbe raggiunto più tardi anche il figlio
secondogenito Scipione. Segregata nel castello di famiglia dai rozzi fratelli,
dediti alle cacce e alle ruberie, l’infelice baronessa crebbe, perciò, senza
l’affetto del padre e del prediletto Scipione, trovando nel supporto del suo
precettore e nella poesia, dono trasmessole in eredità dallo stesso Giovan
Michele, la sola consolazione alla sua solitudine. Impossibilitata a raggiungere
la corte francese e a realizzare in essa i suoi sogni di amore, di fama e di
gloria poetica, non le restò, allora, che inveire contro l’empia Fortuna e la
bruta realtà del luogo, nella quale si veniva consumando inesorabilmente la sua
«verde etate», finanche ad accettare cristianamente il proprio destino
attraverso un’autentica “svolta” mistico-religiosa, di cui sono testimonianza le
due canzoni indirizzate a Cristo e alla Vergine. A turbare questo scenario
comparve, però, il brillante poeta italo-spagnolo Diego Sandoval de Castro,
signore della vicina terra di Bollita e marito della nobildonna napoletana
Antonia Caracciolo, con cui Isabella cominciò una furtiva corrispondenza
epistolare, tramite l’intermediazione dello stesso precettore, durante i brevi
soggiorni di lui nel suo feudo, laddove si recava di nascosto a visitare la
moglie e i figli, essendo egli un “bravaccio” fuggiasco dal Regno per alcuni
suoi non chiari trascorsi con la legge. Non sapremo mai se questa relazione
rimase soltanto un’innocente e platonica amicizia “di penna”, forse uno scambio
di pareri sulle poesie che entrambi scrivevano, o piuttosto qualcosa di più
intimo, ma le chiacchiere di paese giunsero ben presto alle orecchie dei
familiari. Nonostante la precauzione adoperata dal barone di Bollita di scrivere
alla castellana di Favale, servendosi del nome della moglie – di cui Isabella
era amica – per stornare ogni sospetto, una lettera “galeotta”, rimasta,
peraltro, sigillata, fu comunque intercettata dai suoi fratelli, tre dei quali,
Cesare, Decio e Fabio, con la complicità di due zii paterni, misero in atto una
terribile e sanguinosa vendetta d’onore, convinti che tra i due ci fosse una
tresca amorosa e non potendo sopportare, quindi, che la sorella fosse l’amante
di un uomo sposato e, per giunta, spagnolo, essendo loro di tradizione
filo-francese. Il primo a essere assassinato nell’autunno-inverno del 1545-46 fu
il precettore, presunto mezzano d’amore, poi fu la volta di Isabella, che finì
brutalmente pugnalata non ancora trentenne, colpevole soltanto di essere troppo
delicata e sensibile per quel luogo e per quel tempo; e, infine, circa un anno
dopo, la stessa sorte toccò al de Castro, perito in un agguato tesogli nel bosco
di Noia, benché munito di scorta. Sul triplice delitto non tardarono a partire
le indagini, con grande dispiegamento di forze armate agli ordini del viceré don
Pedro de Toledo, contrariato, soprattutto, per la gravità dell’omicidio di un ex
ufficiale e protetto di Carlo V, ma i veri colpevoli riuscirono a farla franca,
trovando scampo e ospitalità in Francia, dove era ancora vivo e attivo lo stesso
Giovan Michele – mai più rientrato a Favale, nonostante la revoca della condanna
nel 1533 –, il quale non aveva comunque fatto nulla per cercare di evitare una
simile carneficina. Due dei sororicidi, inoltre, “raccomandati” dal potente
fratello Scipione, che era divenuto nel frattempo segretario della regina
Caterina de’ Medici, giunsero addirittura a fare carriera, in campo
ecclesiastico Decio, che vestì gli abiti talari, ottenendo un’abbazia vescovile
nel Limosino; in campo politico Cesare, che contrasse un ricco matrimonio con
una gentildonna della regione. Del terzo, Fabio, si persero le tracce e di certo
si sarebbero perse anche quelle della nostra Isabella, se nel corso delle
indagini e delle perquisizioni fatte al castello dei Morra non ne fosse stato
rinvenuto l’esile e tutt’altro che tradizionale Canzoniere, composto di soli
dieci sonetti e tre canzoni; alcuni dei quali resi, tra l’altro, noti a Venezia
nel 1552, appena sei anni dopo la sua tragica morte, dallo stampatore Lodovico
Dolce, che li aveva, a sua volta, ricevuti dal libraio napoletano Marcantonio
Passero, e poi interamente raccolti da Lodovico Domenichi nella sua antologia
tutta al femminile, stampata a Lucca nel 1559.
Di grande interesse e in parte problematiche sono state le ricerche
bibliografiche. Certo, a prima vista, le notizie riguardanti la Morra risultano
falsamente abbondanti, dal momento che tale abbondanza finisce per essere una
ridondanza di pochi dati sempre uguali. E questo perché, al di là dei tanti
scritti e delle più svariate interpretazioni, alcune di notevole pregio, davvero
troppo poco si sa della sua vicenda umana e poetica, che resta, a tutt’oggi,
oscura e approssimativa, benché ancora aperta alla speranza di nuove piste di
indagine. Le uniche fonti certe restano, perciò, la genealogia di famiglia,
Familiae nobilissimae de Morra historia, scritta dal nipote Marcantonio e
pubblicata postuma a Napoli nel 1629, e i documenti rintracciati da Benedetto
Croce nell’Archivio di Stato di Napoli e, tramite l’amico Nino Cortese, nell’Archivo
General de Simancas, sui quali il critico abruzzese ha potuto lavorare alla
ricostruzione dei fatti. Altro materiale ci è stato fornito, inoltre, dal Parco
Letterario “Isabella Morra” di Valsinni, compresa la copia originale di alcuni
atti conservati a Simancas, grazie alla collaborazione del presidente del Parco,
Rocco Truncellito, di Antonietta Dursi e Piera Chierico, rispettivamente
fotografa ufficiale e guida del Parco, del cantautore Antonio Labate e
dell’attuale proprietario del castello, Vincenzo Rinaldi; e ancora degli
studiosi e storici locali, Giovanni Caserta, Giovanni Montesano e, in
particolare, Pasquale Montesano, cui vanno i nostri ringraziamenti per il valido
contributo e il prezioso supporto offerto nel corso del lavoro.
Una volta raccolto e catalogato il materiale a nostra disposizione, si è passati
a esaminare nello specifico il caso della poetessa di Valsinni, indagandolo in
base a tre diverse prospettive o chiavi di lettura, corrispondenti, per
l’appunto, ai tre capitoli della tesi. Dopo un breve excursus sulla storia della
famiglia Morra, ci si è concentrati, nel primo capitolo, sulla biografia di
Isabella e sul contesto storico di appartenenza, attraverso una descrizione
dettagliata dei fatti (disquisizione su luogo e data di nascita, studi e
formazione, retroscena dell’esilio paterno) fino al fatidico incontro con il de
Castro e all’analisi di questo misterioso episodio di cronaca nera, tanto
esemplare, quanto irrazionale, data, per l’appunto, l’inconsistenza del movente
stesso. Nel secondo capitolo lo sguardo è stato poi allargato al contesto
geografico, socio-economico, culturale e religioso della Basilicata del tempo,
rivolgendo un’attenzione particolare al «denigrato sito» di “Favalsinni”,
rivisitato, soprattutto, non come punto geografico, ma come dimensione dello
spirito, da Edrisi a Croce, da Lenormant a Fernandez, e al castello baronale, in
cui la Morra nacque e morì prigioniera. E, infine, nel terzo capitolo, dopo un
paragrafo introduttivo sul fenomeno delle donne poetesse, si è cercato di
inquadrare la poesia di Isabella all’interno del petrarchismo cinquecentesco,
filtrato dalla lezione del Bembo e del Sannazaro, per giungere all’analisi
tematica, stilistica e linguistico-lessicale delle Rime, di cui è stata
ricostruita la genesi, dall’edizione giolitina del 1552 a quella curata da Tobia
R. Toscano nel 2007, cogliendone, tra l’altro, possibili tangenze e interferenze
nel “non tempo” dei grandi lirici della nostra tradizione letteraria (da Tasso a
Leopardi, per citare i più rappresentativi).
Attraverso l’integrazione di queste tre prospettive è stato possibile fornire,
infatti, un quadro più realistico e completo della vicenda morriana, facendo
emergere una visione meno circoscritta e, in definitiva, meno “astratta” della
sinisgalliana «poetessa dei calanchi», oggi più che mai genius loci,
indissolubilmente radicata nel sito, da cui per contrasto si originò la sua
ispirazione. Eco “anomala” e “personalissima” nel rispecchiamento del suo
modello Narciso, del quale si prestò a recuperare soltanto l’aspetto più
superficiale, e, quindi, non contenutistico, muovendosi con grande libertà e
varietà di esiti tonali tra suggestioni classiche e dantesche, la Morra si
distinse, però, anche rispetto alle altre rimatrici dell’epoca, legate ad
ambienti raffinati e inneggianti all’amore, tema misteriosamente assente nei
suoi versi, per quanto sublimato tra le pieghe dell’invocazione a Cristo.
L’unica sola verità emergente da essi è quella di un’anima tormentata che,
attraverso un tono sincero, che fu sempre confessione intensa e commovente del
suo dolore, mai indulgente al lamento letterario, cantò la propria lacerante
solitudine interiore ed esteriore, la ribellione contro l’avversa Fortuna,
l’insofferenza per la gente ignorante e rozza delle «orride contrate», la
nostalgia per il padre lontano, il desiderio di evasione e l’attesa della morte
come unica possibilità di vita.
Ci sono personaggi che hanno un carisma tale da trascendere il tempo,
oltrepassarlo e poi attualizzarlo, lasciando le orme dei propri passi e le
ferite della propria anima, giacché il poeta è – per dirla con Pessoa – «chi
travalica sempre i propri limiti», dischiudendosi a significati sempre nuovi e
indifferenziati attraverso i secoli. E in Isabella Morra sembra concretizzarsi,
d’altronde, la veridicità di tale affermazione, benché vissuta sulla falsariga
di una “limitante” esperienza terrena, troppo presto troncata per ragioni di
sconvenienza politica o forse anche culturale, più che di natura passionale, sia
pur rappresentando essa uno spaccato piuttosto tipico della vita rinascimentale,
soprattutto delle province meridionali, come appare dalle pagine del Burckhardt
e dal quadro fosco di un’Italia “nera”, in cui coesistevano tanto pacificamente
cultura e crimine. Né “figlia” di Eva, né di Maria, la Morra partecipò, dunque,
in limine alla civiltà del XVI secolo, scegliendo e pretendendo per sé il ruolo
che le fosse più consono, quello di “amazzone-virago”, comune a tante altre
donne della stessa cerchia, che lasciarono aghi e fusi per impugnare la penna
d’oca. Una scelta, questa, fallita sul piano umano, perché destinata a
scontrarsi contro il muro dell’ottusità e del preconcetto, legato alle
convenzioni sociali e alle leggi non scritte della divisione dei sessi, ma che
le permise di uscire, sexum superando, dal perimetro domestico di una
“normalità” imposta per cercare di costruirsi, al di là di una “vile” «cuna» di
periferia, mai integrata nella storia d’Italia antica e moderna, un più “degno”
e universale «sepolcro», specchio della propria libertà interiore. Ed è in
questo contrasto che vanno sicuramente ricercati il nucleo della sua tragedia e
il fascino della sua poesia, nella capacità, cioè, di trasmettere alla realtà
delle donne del Duemila un lascito più che mai attuale. Quello di un’aspirazione
alla libertà di pensiero, di espressione, di amore, di “essere”, perché
l’assurdità di tante situazioni esistenziali non divenga sistema di vita.
Alessandra Dagostini
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In copertina
Una voce senza corpo, un nome senza volto. Questa è l’immagine che ci viene
tramandata di ISABELLA MORRA, petrarchista lucana del Cinquecento, nata e
vissuta a Valsinni, l’antica Favale, remoto angolo selvaggio del Materano, e
ingiustamente dimenticata per quasi quattro secoli fino alla riscoperta di
Benedetto Croce, che l’ha rilanciata di diritto nel panorama letterario.
Tragico e commovente, il caso della “poetessa fanciulla” sembra racchiudere in
sé tutti gli elementi di una trama romanzesca: dal dramma della sua forzata
reclusione nel castello di famiglia alla fine violenta e misteriosa per mano dei
suoi fratelli, che la uccisero nel fiore degli anni assieme al precettore e a
Diego Sandoval de Castro, suo presunto amante, anch’egli poeta, marito della
nobildonna Antonia Caracciolo e signore della vicina terra di Bollita, con cui
l’infelice baronessa aveva intrecciato una furtiva corrispondenza epistolare. Un
singolare giallo fatto d’amore, di politica, di vendetta e di morte, dal quale
la Morra emerge come una figura di straordinaria attualità; un’eroina di
“inchiostro” che osò sfidare, sexum superando, il grigiore delle convenzioni
sociali, facendo della poesia una ragione di vita. Difficilmente ritroviamo nei
petrarchisti del Cinquecento versi così intensi e vibranti, che ci restituiscono
il segno poetico di un’anima tormentata, ora disperata nella solitudine, ora
felice nell’estasi mistica, ma perennemente assetata di luce e di immortalità.
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