Gianmario Lucini
Ci siamo già occupati di questa scrittrice in una recente nota, presentando alcune liriche allora inedite, che sono oggi pubblicate (ottobre 2002) in L'ultimo viaggio, per i tipi delle Edizioni Il Foglio. La recente raccolta è composta da 46 brevi liriche, presentate da Piergiorgio Cavallini e Giuseppe Risica, con una nota del sottoscritto presa dalla presentazione apparsa su Poiein. L'autrice ci ha poi inviato, oltre all'ultima sua fatica, anche un quaderno di 34 poesie, alcune brevissime, che si intitola La vana attesa, edito da Penna D'Autore, anno 2000. Abbiamo così sufficiente materiale per presentare meglio questa poeta ed integrare la nostra precedente nota con alcune osservazioni che ci vengono soprattutto da La vana attesa, la raccolta precedente. Abbiamo scritto, nella citata nota, riferendoci ad alcune poesie di argomento mitologico, che bisogna fare molta attenzione nel leggere i testi della Santucci, perché sottintendono molto di più di quello che potrebbe sembrare a una lettura superficiale. Scrivevamo anche che, nonostante quelle liriche trattassero un argomento mitologico, il riferimento o il bersaglio è l'uomo contemporaneo. La vana attesa, benché precedente, sembra la raccolta che conferma con forza questa nostra intuizione. C'è anche un altro aspetto della poesia di Francesca Santucci da valutare con attenzione: il fatto che lei porga al lettore le sue poesie in una forma (parlo anche della grafica del testo scritto) volutamente, per così dire, vetusta, infiorata, con uno stile grafico che si richiama esplicitamente al liberty. Ora, chi scrive ha in mente questa epoca come l'età della preponderanza - o prepotenza - dannunziana poco o male contrastata dai pochi simbolisti come il "povero" Lucini, o da un fragile Corazzini - peraltro morto giovanissimo - o a suo modo da Gozzano, o dai poeti scapigliati (come i fratelli Boito, il Dossi, Emilio Praga o Ugo Tarchetti, così amato dalla nostra autrice - si veda su http://digilander.libero.it/euridice6/ , sito da lei curato). Chi scrive inoltre, di quel tempo porterebbe nel nostro secolo soltanto due grandi autori: Saba e Ungaretti, ancora troppo giovani per imporsi su un vate, poi di regime, come il D'Annunzio. Per questo lo stile grafico delle opere ci creava una specie di disagio, immaginando che anche i contenuti corressero nell'alveo dannunziano, un poeta che proprio non ci piace. Ma qui, piuttosto che le isteriche atmosfere dannunziane, troviamo invece un il pathos di certe liriche di Trakl o di Heym, certi accenti che fanno pensare a un raffinato espressionismo, a volte qualche reminiscenza leopardiana e, perché no, dei lirici greci. Insomma, il dispiacere sarebbe stato quello di trovare soltanto, fra le righe della nostra autrice, pizzi, merletti e fiori di carta - ci perdoni la nostra imperdonabile diffidenza -, che troviamo in abbondanza non certo nelle opere della Santucci, ma piuttosto in tanta poesia languida e benpensante che ci martirizza gli occhi, quando siamo costretti - si fa per dire - a leggerla. Certo, i pregiudizi sono sempre vigili e le associazioni a volte adombrate da personali aloni di gusto. Tuttavia l'autrice ancora una volta ci ha convinto perché, al di là della grafica, abbiamo trovato dei testi molto solidi e ben costruiti nella forma linguistica, per nulla vetusta ma molto precisa - questo sì - ed esigente, attraversati da un pathos che non ha nulla di languido e di floreale, ma piuttosto uno spessore e una valenza esistenziale a volte di grande forza espressiva. Certo, si tratta di una sensibilità femminile quella con la quale abbiamo a che fare e pertanto non troveremo mai, nelle poesie dell'autrice, certi toni e certe asprezze che caratterizzano la poesia maschile. Le immagini non sono mai "forti", piuttosto raccolte, miti, direi quasi remissive, addensate in parole ed espressioni quotidiane (il cane fedele / senza più padrone; cane in attesa, crisalide, farfalla, tremolante sui fornelli, notti illune, il fiume calmo e pigro, le lacrime in fondo / sono solo acqua, ...) in contrasto ad altre, di maggiore impatto. La forza ostinata di questa poesia non scaturisce però dalle immagini o dalle figure retoriche, ma piuttosto dalla inesorabilità, dalla sofferenza mentale insita nelle situazioni, pur descritte con mitezza e a volte con leggerezza. Situazioni che toccano il centro di un femminile personale travaglio esistenziale o, se vogliamo, di un travaglio esistenziale (collettivo) vissuto in modo personale, al femminile. Una poesia dunque che non punta all'intimismo e all'egotismo, ma si allarga nella comunicazione, affidata a questo singolare contrasto fra equilibrio di toni e drammaticità di contenuti. Questi sono i fiori amari di Francesca Santucci, una poeta che ci convince e nella quale troviamo accenti capaci di non poco impatto emotivo e di senso, pur nella sofferta pacatezza del tono e nell'amore per la lingua che si esprime nella forma ben curata e di gradevole lettura. Virtù non molto comuni nella nostra poesia contemporanea.
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