Le "farfalle color
zolfo" di Francesca Santucci
di Letizia Lanza
Scrivere, o è mescolare tutto in un
viaggio
che ha per destinazione la vanità e il vento,
o non è niente;
o si mescola tutto in un'unità per sua natura
indefinibile,
o si fa soltanto della pubblicità
Marguerite Duras, da L'amante
Un piccolo/grande gioiello, il nuovo libricino
poetico dell'autrice napoletana , felice anche
nelle soluzioni grafiche. Il che non fa
meraviglia, dal momento che leggiadria ed
eleganza sono componenti essenziali
nella/della vita di Francesca - straordinaria
anche d'aspetto, con un fascino arcano e
avvolgente che spira dai lunghi capelli neri,
dagli occhi grandi e pensosi (un po'
smarriti?), fissi a cercare "un luogo della
terra (...) malinconico come il mio pensiero"
.
Un'autentica donna-protagonista, Francesca
Santucci - dolcissima e volitiva , lucida e
sognante a un tempo. Con una autorevolezza
tutta particolare, che non può non richiamare
alla mente talune suggestioni di Virginia
Woolf: "Una donna entra nella stanza… ma
dovremmo dar fondo a tutte le risorse della
lingua inglese, intere ghirlande di parole
dovrebbero illegittimamente spiccare il volo
verso la nascita, prima che una donna possa
dire quel che accade quando entra in una
stanza. Le stanze sono così diverse; sono
tranquille o tempestose; aperte sul mare o al
contrario sul cortile di un carcere; c'è il
bucato steso, oppure splendono di opali e
sete; sono dure come il crine o soffici come
le piume… basta entrare in una stanza
qualunque di una qualunque strada perché ci
salti agli occhi quella forza estremamente
complessa della femminilità. Come potrebbe
essere altrimenti? Le donne sono state sedute
in queste stanze per milioni di anni, cosicché
ormai perfino le pareti sono pervase della
loro forza creativa, che infatti soverchia
talmente la capacità dei mattoni e della
malta, che per forza deve attaccarsi alle
penne, ai pennelli, agli affari e alla
politica. Ma questa forza creativa è molto
diversa dalla forza creativa degli uomini. E
dobbiamo dedurne che sarebbe un gran peccato
se venisse ostacolata o sprecata, perché è
stata ottenuta con secoli della più drastica
disciplina, e non c'è niente che possa
sostituirla. Sarebbe un gran peccato se le
donne scrivessero come gli uomini, o vivessero
come loro, o assumessero il loro aspetto" .
Ecco, la stanza superbamente abitata da
Francesca può benissimo essere il suo website
:
floreale, sgargiante, talora barocco - ma
sempre espressivo di un gusto e di una
sensibilità che dire speciali è dir poco. Un
sito che gronda femminilità in ogni sua parte,
un mosaico sfarzoso che esprime creatività in
ogni minima tessera. Una spazio di/da donna
che racchiude - e (ri)afferma - la densa
simbologia della woolfiana "stanza tutta per
sé": cioè a dire, "dell'involucro prenatale
irrorato dal millenario sangue dell'anima
femminile, ossia la stanza-grembo: cucina,
salotto, camera, passibile di divenire
officina intellettuale, crogiolo alchemico del
lavoro di autocoscienza, simbolo ambivalente
ed evolutivo della condizione "privata" della
donna
(prigione e silenzio imposto che può
rovesciarsi in secretum attivo e creativo, e
quindi socialmente riscattante" .
Per tornare, ora, a L'ultimo viaggio,
certamente è un librino di pregio, tale da
giustificare l'attenzione - e gli elogi -
degli interventi prefatòri, tutti assai
centrati. Così, in particolare, sono da
condividere le dotte precisazioni di
Piergiorgio Cavallini - filologo romanzo e
traduttore - sulla "forma di queste liriche.
Se il versificare è moderno, "franco dai rudi
vincoli del metro e della forma", per usare
parole d'Arrigo Boito - che non rifugge
dall'asindeto (ché già lanceolati/dorati
tralci avviticchiati/ossigeno
annaspanti
infioravano; cupo precipizio/persi la rotta mi
smarrii vagai/fluttuai nel sonno. Indi
albeggiò/netti i contorni, nitide le
sagome/illuminò/delineò il chiarore,/) - l'ornatus
è classico, con un uso sapiente delle figure:
l'omoteleuto (canarino/paglierino,
lanceolati/dorati tralci avviticchiati); la
climax (L'inattesa bufera s'abbatté,
sradicò,/schiantò, svelse, divelse, seminò/la
distruzione; mi smarrii vagai/fluttuai nel
sonno); la paronomasia (contro il plumbeo
cielo il vólto vòlto; more/amore; le more non
amare con omografo che amare); la
dittologia
(brama ed agogna; la notte che più non
rabbuia/e non annotta; attonito ristette/e
sbalordì; battimi e percuotimi,/sferzami e
scudisciami); il chiasmo (Chiede colore al
sole, alla luna calore chiede); l'anafora (e
allora m'ameresti,/sì, allora m'ameresti;
t'involeresti ancóra/e ancóra… ancóra… ancóra…
)" .
Nato all'insegna di Elizabeth Barrett Browning
, vive in questo libro una poesia che è tutta
"mezze
luci e ombre profonde, come quelle
grotte labirintiche dove si va con una candela
in mano, scrutando qua e là, senza sapere" .
Una scrittura fertile, quella di Francesca;
brillante ed efficace; potente e magistrale;
che sa intuire le cose in sé, così da svelare
taluni aspetti della realtà e animarli di vita
più intensa; che "esplode e origina ogni sorta
di altre idee, ed è l'unico genere di
scrittura di cui si possa dire che possiede il
segreto della vita eterna" . Versi che si
sgranano levigati e armoniosi, costruiti "ad
archi e cupole"; parola sontuosa prodotta da
una interiorità ove - felicemente - si consuma
un "matrimonio di contrari" e consente
all'androginia
di celebrare i suoi fasti. Poiché, come dice
Woolf sulla scia di Coleridge, la mente
androgina è "risonante e porosa"; "trasmette
l'emozione senza ostacoli"; è "naturalmente
creatrice, incandescente e indivisa" . Ciò pur
restando aliena dai tratti, talora ostici,
della mente e dunque del gesto letterario
maschile - con lucidità estrema (e non
dissimulata ironia) enucleati dall'autrice
inglese assieme ai tanti, innegabili pregi:
"Era delizioso leggere di nuovo un libro
scritto da un uomo. Era così diretto, così
immediato (…) Rivelava tanta libertà mentale,
tanta libertà personale, tanta fiducia in se
stesso (…) Tutto ciò era ammirevole. Ma, dopo
aver letto un paio di capitoli, un'ombra
sembrava stendersi sulla pagina. Era come una
sbarra diritta e scura, un'ombra abbastanza
simile alla maiuscola di "Io". Si cercava di
spostarsi di qua e di là, per riuscire a
intravedere il paesaggio nello sfondo. Non
sono certa se quel che passava fosse un albero
o una donna. Si veniva sempre risospinti alla
parola"Io". Si cominciava a stancarsi
dell'"Io". Eppure questo "Io" era un "Io"
estremamente rispettabile; onesto e logico,
duro come una noce, e lucido a forza di secoli
di buoni studi e di buona alimentazione.
Rispetto e ammiro quell'"Io" con tutto il
cuore. Ma (…) il peggio è che nell'ombra della
parola "Io" tutto è senza forma, nebuloso". E
- quel che è peggio ancora - tutto risulta
sguarnito del potere di suggestione: di
maniera che, se pure può "colpire con forza la
superficie della mente, non riesce a
penetrarvi" .
Tutto ciò, inutile dirlo, resta lontano dalla
scrittura di Santucci - dietro e dentro la
quale, invece, si agita la lenta, sofferta
conquista della parola femminile nell'arco dei
secoli; la liberazione dal silenzio a lungo
imposto; il misconosciuto (dagli uomini)
retaggio delle donne di genio: di quelle -
poche - che hanno potuto/saputo esprimersi e
delle tante, tantissime, rimaste vittime della
cancellazione . Qui, infatti, fortissima è la
cifra femminile - improntando sopra tutto le
figure di donne mitiche : al riguardo delle
quali assai efficaci tornano le parole di
un'altra scrittrice napoletana - Annamaria De
Pietro - che sagomano con artata eloquenza le
sue raffinate Prosopopee: "Le persone
mitologiche che parlano in queste pagine non
furono mai vere. Furono, di passo in passo, di
foglio in foglio, segnature, strati di uno
stratificarsi molteplice e complicato - per
filiazioni, degenerazioni, ramificazioni,
varianti che, ogni volta, furono uno strato di
scrittura (orale, scritta - non conta). Ogni
nuovo strato fu a loro morte e reistituzione,
uccisione e parto. Ogni volta non c'era un
ponte da attraversare. Dalla morte non si
torna. Qui, in questo strato, in questa
segnatura che è questo libro, ciascuna delle
persone che parlano non è
vera, non è storia,
non è un tipo garantito in continuità
d'archivio (…) Stanno in un luogo incatenato
di provvisorietà e indecisione, séguito a
perdita. Ma, umanamente, io credo, io che,
senza pietà, ma entro una ferma, e amorosa,
pietas, che della pietà è il contrario (diamo
una casa a questi addii), ne ho fatto i miei
vicari, che pronunciano al posto mio, -
umanamente, dico, spesso, in cerca, ripetono
"io", "me", in cerca di un appiglio, di un
luogo sicuro, di un senso pieno per sintesi,
di un vero non bisognoso di determinazioni -
un pronome; un luogo sicuro che redime per
condensazione, per forma chiusa e stretta, il
loro non sapere, non ricordare, non potersi
confortare nel caldo traino della storia - di
una storia" .
Ansie e palpiti al tutto femminili, dunque.
Così come femminile è la paura che percorre e
agghiaccia i versi santucciani, unita però
alla
tentazione tensione; bisogno desiderio
abbandono verso l'amore - per altro più
tenebroso che solare, a volte addirittura
brutale: basti leggere Schiava:
Non subirò - mi dissi - l'amore
amaro più non subirò, ma poi
ancóra ai lacci i polsi, alla catena
il collo, docile e volontaria
volentieri offersi. E consenziente
schiava mi scoprii dolce avvinta
fra viluppi e legacci (p. 32)
oppure More/amore:
Bell'amore! Quale amore?
Singulto nella notte, pianto
sommesso, rollìo,
beccheggio, vomito e conato,
dolore, spina nel cuore:
così è l'amore.
Meglio, allora, le more non amare
che amare, dal rovo le colgo
e ne succhio il succo e indolore
m'inebrio e n'assaporo
tutta la dolcezza (p. 35)
o, ancora, La notte e il giorno:
Mi sfinisce il giorno e m'offendono
gli squarci lametaglienti della luce,
e buio eterno che ferisce
è l'ora, da trascorrere lenta.
In narcotica agonia la lunga notte
attendo e poi sopporto, e subisco
l'indomani. Al risveglio l'identica
disperazione precedente: ancóra
mi sorprende l'amore/dolore
senza lieto fine (p. 35)
L'amore come sofferenza, insomma. D'altro
canto l'amore, si sa, per una donna è anzi
tutto lacerazione... . E poi nell'amore, anche
questo si sa, troppo grande (incalcolabile, a
vero dire) è il rischio di sviarsi, smarrirsi
- se non di perdersi/perire addirittura. Un
volo esaltante e periglioso - voluto, forse,
da Francesca, più spesso che realmente
esperito (osato):
Acherontia la rosa canina
un giorno si sognò,
e leggiadra all'aria
la corolla dispose.
Tentò involarsi, ma ali
quei petali non erano.
Immota sullo stelo
ristette e respirò
l'ultimo suo profumo (L'ultimo profumo, p. 36)
Un salto nel vuoto, insomma. Un abisso
insondabile e indefinibile (nella doppia
accezione del termine), verso il quale è
necessario (inevitabile) provare terrore e
attrazione insieme. I medesimi sentimenti, a
ben guardare, che Santucci nutre nei confronti
della morte - l'oscura Signora odiata e
bramata a un tempo:
Reclinato il capo sulla spalla
tesa il sangue a scaturire
in lenta pena dalla bluastra vena
del braccio in distensione
osserverei, calma tranquillità,
fluire via la vita dalla scena:
momento perfetto! (p. 36)
Puntuale e convincente, allora, Giuseppe
Risica nel dire che il viaggio santucciano
dell'amore/nell'amore è "l'ultimo" perché
senza ritorno - e perciò turbevole, spaurante
al massimo. Ciò non ostante esso rimane, per
l'autrice, "l'obiettivo finale da centrare, la
meta definitiva da raggiungere, la ragione
ultima e più vera della presenza in questo
mondo difficile, la sola, probabilmente, per
cui valga la pena di vivere e lottare" . Un
sentimento ostinato e possente, violento
addirittura - si è visto. Che se da un lato
stria di sofferenza l'anima e la carne,
concorre d'altro lato a sgravare il peso -
croce e delizia eterna - della genealogia
(anche simbolica) della madre, con la totale
epperò vincolante apertura all'affidamento. Un
peso, si direbbe, schiacciante nella
precedente, già citata raccolta: basti pensare
a Soltanto la mia mamma: "Nella culla naturale
/ delle tue braccia candide / m'accoccolerei,
/ adagerei il capo piano / e mi rannicchierei
/ contro il tuo cuore / per riposare, / per
placare gli affanni / come una bambina, / come
da bambina, / come quando io ero bambina / e
tu non eri donna, / soltanto la mia mamma" (p.
6); o a Madrefiglia: "Il seme nel terreno / i
pesci in fondo al mare / le ossa nella pelle /
dentro la testa il cervello / la penna nel
taschino / la spada nella guaina / e poi
nuovamente vagire / ritrovarti risalire / ai
confini della notte / primordiale / quando
eravamo / unica entità / mai più divise ora /
mammamothermaman" (p. 10); oppure, ancora, a
Il ritorno: "Risalire dentro il tuo ventre /
su, su, molto in alto, / nuovamente
accucciarmi / fra le visceri protettive, /
fluttuare e lasciarmi cullare / dall'armonico
tuo respiro… / E poi ascoltare, in silenzio /
ancora ascoltare / filastrocche e nenie /
sussurrate dalle tue labbra / di miele" (p.
25).
Una ricchezza nuova, allora, sembra di poter
cogliere in L'ultimo viaggio. Una
consapevolezza femminile più variegata e
adulta - e, di conserva, una più elevata
caratura poetica - che entrambe pervadono
questo fantastico minuscolo libro, non esente
talora da ricercatezze compiaciute e, perché
no? ostentate, ma pur sempre talentuoso e
finissimo - tanto da avverare al meglio la
luminosa profezia di Woolf: "Se viviamo per un
altro secolo - parlo della vita comune, che è
la vera vita, e non delle piccole vite isolate
che viviamo come individui - e se ognuna di
voi ha cinquecento sterline e una stanza tutta
per sé; se abbiamo l'abitudine della libertà e
il coraggio di scrivere esattamente ciò che
pensiamo; se usciamo un po' dal salotto comune
e vediamo gli esseri umani non sempre in
relazione reciproca, ma in relazione con la
realtà, e anche il cielo e gli alberi o
qualunque cosa ci sia in loro ; se guardiamo
oltre lo spauracchio di Milton , perché nessun
essere umano dovrebbe chiuderci la visuale; se
guardiamo in faccia il fatto, perché è un
fatto, che non c'è alcun braccio a cui
appoggiarci, ma che camminiamo da sole e che
dobbiamo essere in relazione col mondo della
realtà e non solo col mondo degli uomini e
delle donne, allora l'opportunità si
presenterà, e quella poetessa morta che era la
sorella di Shakespeare rivestirà il corpo di
cui tante volte si è spogliata. Attingendo la
sua vita alla vita di quelle sconosciute
precorritrici, come prima di lei fece suo
fratello, lei nascerà. Che ritorni senza
quella preparazione, senza quello sforzo da
parte nostra, senza quella determinazione che,
una volta rinata, possa vivere e scrivere la
sua poesia, questo non possiamo aspettarcelo,
perché sarebbe impossibile. Ma io sostengo che
lei verrà, se lavoreremo per lei, e che
lavorare così, pur nella miseria e
nell'oscurità, vale la pena" .
E che ne valga la pena lo dimostra, senza
dubbio alcuno, anche il nuovo prodotto
santucciano: un risultato davvero non da poco!