Il "Corpus Tibullianum", raccolta di carmi
dei poeti del circolo di Messalla, 1 è
composto da tre libri: i primi due contengono le
elegie di Tibullo, il poeta più rappresentativo
del gruppo, il terzo, "Lygdami elegiarum liber" (1-6),
il libro delle elegie di Ligdamo, pure di
Tibullo, di valore non rilevante, "Panegyricus Messallae" (7), il panegirico di Messalla,
scritto da un autore incerto, pure mediocre,
"Elegiae de amore Sulpiciae" (8-12), “Sulpicia”
(13-18), ed altri due testi di Tibullo, un’
elegia ed un epigramma (19-20).
Sulpicia, un’interessante testimonianza
letteraria femminile della latinità, nonché
importante documento dell’emancipazione
raggiunta all’epoca dalle donne, comprende sei
brevi elegie, in tutto quaranta versi,
appassionati messaggi d’amore, vere e proprie
grida dell’anima, scritti dalla poetessa Sulpicia, sulla cui reale esistenza un tempo si
era dubitato, essendo stata avanzata l’ipotesi
che non fosse mai esistita e che i componimenti
a lei attribuiti fossero esercitazioni
letterarie, svolte da poeti del circolo di
Messalla su temi proposti in questo ambito.
Ma il piccolo canzoniere d’amore indirizzato
all’innamorato, Cerinto, fu composto proprio da
Sulpicia, figlia di Servio Sulpicio Rufo, nipote
dell’omonimo amico di Cicerone, e di Valeria,
sorella di Messalla, allora in tutela dello
stesso Messalla.
È sul suo Cerinto, invece, che non si sa
nulla; anche se pare da escludere che sia stato
uno schiavo (taluni studiosi avanzano l’ipotesi
che possa trattarsi di un amico di Tibullo,
Cornutus- Cerinto sarebbe il nome
ellenizzato- citato nell’elegia II 2)
2 certamente fu di condizione inferiore a Sulpicia
se, in un verso, in un moto di gelosia, la
fanciulla, aristocratica, ricca ereditiera,
oltre che "docta puella", con superbia ricorda
essere: Servi filia Sulpicia.3
Dagli "elegidia", brevi bigliettini, scritti
in versi schietti, semplici, con termini d’uso
comune, stilisticamente immaturi, ma guidati da
autentico moto del cuore, centrale è il tema
della passione nella reciprocità (mutuus amor),
confessata in maniera spregiudicata, ma ben si
evidenzia anche l’attenta analisi in generale dei sentimenti e degli
stati d’animo altrui e propri.
"È giunto, infine, l’amore" è la prima elegia
(la XIII) in cui, dispiegandosi in distici
martellanti, viene celebrato il tema dell’amore
trionfante, topos che fu molto esaltato in
Ovidio insieme al tema della militia amoris4
qui assente, trattandosi di una donna.
Nella seconda elegia (la XIV),
"Che
compleanno noioso", Sulpicia lamenta d’essere
costretta a festeggiare il suo compleanno nella
tenuta di Arezzo dovendo seguire, a malincuore,
lo zio e tutore Messalla, ma, luogo comune della
poesia d’amore, dice di lasciare il suo cuore a
Roma.
In "Sai che la triste preoccupazione di quel
viaggio" (la XV) la giovane comunica che
il viaggio è stato annullato e può, pertanto,
festeggiare con i suoi cari il suo dies
natalis.
Ocuro è, invece, il senso dell’elegia
"M’è
gradito che ormai tu ti permetta molte cose" (XVI),
pervasa di sarcasmo e superbia, probabilmente
perché si riferisce ad un tradimento, scoperto
da Sulpicia, di Cerinto, con una rivale di
condizione sociale inferiore, forse una schiava,
come lasciano pensare i termini toga,
indumento indossato dalle meretrices, non
dalle dominae, che, invece, usavano la
stola, e quasillo (Set tibi cura togae
potior pressumque quasillo/ scortum quam Servi
filia Sulpicia, Sulpicia, Elegia XVI);
quasillum era il cesto contenente la lana da
filare quotidianamente assegnata alle schiave.
In "Non provi, o Cerinto,
una pietosa preoccupazione per la tua fanciulla" (la
XVII), Sulpicia scrive d’essere malata, come
fa supporre il termine calor (la febbre)
probabilmente di malaria, malattia molto
diffusa nell’antica Roma e particolarmente
pericolosa verso l’autunno.
Chiude il piccolo canzoniere l’elegia XVIII,
"O mia luce, ch’io possa non essere più il tuo
amore appassionato", poesia-prosa dai versi
laboriosi e complessi guidati, come sempre
dall’ardente Sulpicia nei suoi messaggi amorosi,
dal sentimento e dalla passione.
XIII
È giunto, infine l’amore, e più vergognoso mi
sarebbe
occultarlo che renderlo a qualcuno manifesto.
Pregata dalle mie Muse,Venere l’ha condotto a
me
e nel mio seno l’ha deposto.
Le promesse Venere ha mantenuto: le mie gioie
racconti
colui di cui si dice che di sue non ne ebbe.
Nulla vorrei affidare a tavolette sigillate
perché nessuno prima del mio amato le legga,
ma dolce m’è peccare e disdegno fingere un
viso contrito.
Si dirà che lui fu degno di me, che io fui
degna di lui.
XIV
Che compleanno noioso tristemente dovrò
trascorrere
nell’odiosa campagna senza il mio Cerinto!
Che cosa è più piacevole della città?O forse
ad una giovane
sono più adatti una villa ed un gelido fiume
che scorre nell’agro aretino?
Non affannarti, infine, o Messalla, che
troppo di me ti preoccupi:
spesso i viaggi, parente mio, sono
inopportuni.
Trascinata via, qui l’anima ed i miei sensi
lascio,
anche se tu non mi permetti di agire secondo
la mia volontà.
XV
Sai che la triste preoccupazione di quel
viaggio svanita è dall’anima della tua
fanciulla?
Ora le è permesso di stare a Roma nel giorno
del suo compleanno.
Celebriamo tutti insieme questa ricorrenza
che ti giunge, forse, quale più non speravi.
XVI
M’è gradito che ormai tu ti permetta molte
cose
senza preoccuparti di me,
poiché non temi che ad un tratto
io possa stupidamente perdermi.
Preoccupati pure di una toga e di una
donnaccia che reca
un pesante paniere, più che della tua
Sulpicia, figlia di Servio!
Ci sono quelli che si preoccupano per me,
che molto s’addolorerebbero,
se venissi preferita ad un volgare giaciglio.
XVII
Non provi, o Cerinto, una pietosa
preoccupazione per la tua fanciulla,
perché la febbre ora tormenta il mio corpo
spossato?
Ah certamente non desidererei guarire dal mio
triste male
se non sapessi che anche tu lo vuoi allo
stesso modo!
Perché mai dovrei guarire dal male,
se con cuore indifferente puoi sopportare la
mia malattia?
XVIII
O mia luce, ch’io possa non essere più il
tuo amore appassionato,
come mi pare d’ essere stata fino a pochi
giorni fa,
se in tutti gli anni della giovinezza,
sciocca, ho commesso
qualcosa di cui maggiormente pentita mi
confessi
che dell’averti lasciato solo la scorsa
notte,
desiderando nasconderti il mio desiderio!
1) Molto attivi in Roma a cavallo fra il I
secolo a. C. ed il I secolo d. C. furono i
circoli letterari. Al Circolo di Messalla faceva
capo un gruppo di poeti, soprattutto elegiaci (i
principali furono Tibullo ed Ovidio), stretti
intorno a Marco Valerio Messalla Corvino, che,
all’ottimismo nelle grandi riforme e
restaurazioni, politiche e morali,
contrapponevano l’evasione nel sogno e il
rifugio nell’amore.
2)
Tibullo, Elegia II 2, adnuat et,
Cornute, tibi, quodcumque rogabis.
3) “…Set tibi cura togae potior pressumque
quasillo/ scortum quam Servi filia Sulpicia”.
Preoccupati pure di una toga e di una donnaccia
che reca/un pesante paniere, più che della tua
Sulpicia, figlia di Servio! Sulpicia, Elegia XVI.
4) Per ” militia amoris”, la militanza amorosa,
s’intende l’amore come conflitto e
combattimento. L’uomo innamorato affronta rischi
ed ostacoli per la donna amata, talvolta
arrivando fino all’estremo sacrificio, la morte,
come nella tragica vicenda di Leandro e di Ero.
Riferimenti bibliografici
P. Fedeli, Letteratura latina, Il Tripode,
Napoli, 1980.
Toddi- Mosti, Best sellers di Roma antica,
Laterza, Roma-Bari, 1988.
Tibullo, Elegie, Fabbri editore, Milano, 1994
Trad dell'A.