Il
sogno della poesia:
esordienti
e canoni lirici di fine millennio
di Marinella
Fiume
Il lavoro svolto insieme con altri
membri all’interno delle Giurie di Premi di Poesia più o meno rinomati mi ha consentito di esaminare una vasta
produzione in versi, tanto di poeti che ormai non possono
definirsi “esordienti”, in quanto già “laureati” con le
loro precedenti sillogi, da consensi di Critica almeno in ambito
regionale, quando non nazionale,
quanto di esordienti veri e propri e studenti di varie
Scuole Superiori, nella sezione a questi ultimi espressamente
dedicata. Un angolo di osservazione privilegiato da cui
è stato possibile, nell’estrema diversità delle fasce d’età,
dei livelli di alfabetizzazione e dei bagagli di letture, delle
sensibilità e delle esperienze di vita, dei livelli e degli
esiti artistici rappresentati, registrare come, ad onta della
stretta editoriale che ha falcidiato – almeno dagli anni
Ottanta del Novecento – le collane di poesia, ad onta
dell’apparente distanza del fatto poetico dal cuore pulsante
dell’attuale cultura dell’immagine e di Internet, ad onta
della presunta devastante aridità delle masse sempre più
asservite al Mercato e degli individui divenuti sempre più
consumatori, ci sia fame-sete-bisogno-voglia-smania di poesia. Insomma, sbaglierebbe chi dicesse che la poesia,
dopo un lungo periodo di marginalità e di rigetto in cui ha
persino suscitato un certo fastidio in alcuni, imbarazzo in
altri, è morta, sia perchè in quello che, con una discussa
definizione, si è soliti definire “Postmoderno”, essa è
rimasta, malgrado tutto, l’ attività che meglio consente allo
spirito, emancipatosi dal tecnologico, di esercitare i suoi
esclusivi privilegi, il dominio assoluto della creatività senza
pastoie, sia perché, quand’anche sia raro varcare la soglia
della dimora del poetico, l’ingresso vi è percepito, però,
come continuamente promesso. Pertanto, più che di poesia,
Alfonso Berardinelli, nel suo saggio del 1984, preferisce
parlare di “sogno della poesia”, mentre il poeta Antonio
Porta afferma che, oggi, siamo attestati su un “Orizzonte di
attesa”. Tra quelli che abbiamo genericamente definito
“esordienti”, bisogna distinguere i poeti esordienti in
senso proprio e quelli che
potremmo, crocianamente, definire “poeti spontanei”,
che spesso sono “esordienti” solo perché non hanno alle
spalle pubblicazioni, ma riempiono per lo più i cassetti di
versi e partecipano con giovanile entusiasmo –
indipendentemente dall’età - ai numerosi concorsi letterari,
oggi più a portata di mano, in quanto, grazie ai tanti appositi
siti Internet, ormai a portata di tutti, sono usciti dal limbo
elitario delle riviste specializzate. Tra questi ultimi, è possibile trovare molti
studenti delle Scuole di ogni ordine e grado, per lo più
adolescenti, che oggi conoscono meno – o sconoscono affatto -
il tradizionale repertorio poetico – da Dante a Pascoli -
fatto apprendere mnemonicamente alle generazioni precedenti, ma
dovrebbero conoscere meglio le tecniche poetiche, grazie a una
didattica più attenta a questi fatti e più smaliziata che
abitua allo “smontaggio” del testo poetico e alla frequenza
dei laboratori di scrittura creativa,
attualmente tanto in voga, carezzati da scrittori, anche
piuttosto affermati, e da case editrici grandi e piccole. Già Croce operava la celebre distinzione tra
espressione naturale e espressione sentimentale o immediata: la
prima consistente in fiumi di espressioni articolate
senza forma, mentre nella seconda il sentimento è
trasfigurato, ha forma. E Goethe definiva la poesia, quantunque
sempre “poesia d’occasione”, come “frammenti di una
grande confessione”, un “riannodare un interrotto
discorso”. Nella poesia il sentimento trova la catarsi; essa
riannoda il particolare all’universale; più che teoresi
(conoscere), essa è un produrre (poiéin). Quand’anche
non ci trovassimo davanti ad una poesia che tratti in modo
elevato argomenti elevatissimi o divini,
avremmo pur sempre uno staccarsi dalla dimensione della prosa-ica
vita quotidiana, un tendere verso dimensioni che superino
confini limitati e finiti attraverso l’espressione letteraria
che è còsmos, prépon, ordine, convenienza,
perchè anche il genium
non è folle e caotico, ma congegno. Indipendentemente dagli esiti poetici, l’analisi
della produzione in versi degli Autori che hanno partecipato al
concorso in generale conferma che gli impulsi scatenanti della
produzione poetica spontanea di ogni tempo costituiscono un
repertorio ormai più
o meno standardizzato: l’amore, il dolore per l’abbandono,
il tramonto del sentimento amoroso nell’eutanasia del ricordo,
il rimpianto per un’età felice, l’indignazione e lo sdegno
contro la società. Tali impulsi vengono per lo più elaborati in modi effusivi tipici
dell’immediatezza di sentire e spesso sono accompagnati dalla
volontà del pianto e dalla dolcezza del sospiro consolatorio.
Sentimenti tipici di anime sensibili che si abbandonano spesso
ad effusioni senza pudore. Ma spesso la poesia spontanea non è
stata poi così spontanea e si è lasciata sedurre
dall’estetismo alessandrineggiante, attraverso la grande
seduzione della rima con acrostici, rime equivoche, rime
identiche, ecc.; anche oggi il verso libero ha le sue seduttrici: assonanze,
consonanze, rime interne, ecc.. La Poesia è un apprendimento, un lungo processo,
che si forma a partire dai banchi di scuola: non mi pare
negativo che gli adolescenti siano grandi produttori di versi,
il versificare può essere un utile esercizio che conduce ad una
lettura più consapevole della grande poesia. A un giovane che
voglia intraprendere la strada della poesia o, in generale,
della letteratura si raccomanda giustamente, infatti, di
leggere, studiare soprattutto i grandi, con una sorta di invito
al plagio, ovviamente a fin di bene. E certo l’invito può
apparire a prima vista una contraddizione rispetto al fatto che
la caratteristica precipua della poesia è la sua originalità,
non a caso Goethe sostituiva la parola “imitare” con
“emulare”. Invece, il grande poeta rimane in fondo e malgrado
tutto un autodidatta che impara il mestiere a proprie spese, che
fatica a domare le rozzezze dell’espressione immediata e a
darle forma composta, che ha una grande conoscenza che, infine,
diventa completo possesso. Ci imbattiamo così nell’eterna questione della
“insegnabilità della poesia”, al di là della legittima
insegnabilità delle regole della versificazione, quella
precettistica che si apprendeva a scuola nell’Ottocento. Altra
cosa sono il lungo studio e le sudate carte di leopardiana
memoria, più vicini, se mai, al labor limae dei poeti
latini. Ogni
poeta, si sa, è figlio di tutti i poeti che l’hanno preceduto
e di nessuno in particolare, e per questo i
poeti sono stati definiti “ladri”, anzi, Voltaire
diceva che i grandi poeti non
solo rubano, ma ammazzano coloro che hanno derubato.
Rintracciare la presenza dei grandi nella poesia è l’ambito
di quella che una volta si chiamava “critica delle fonti”.
Oggi, dopo Michail Bachtin, si parla di intertestualità, ossia
della presenza nei testi di testi di altri autori, a diverso
titolo, dalla semplice citazione a veri e propri debiti
contratti con altri
autori, per lo più del passato, secondo processi consci, mentre
c’è anche una memoria poetica inconscia che è il risultato
di letture proprie assimilate inconsapevolmente o addirittura
respirate nell’aria del contesto in cui ogni autore si muove,
che possono definirsi suggestioni più o meno durature, echi non
mediati. Il modello di riferimento può essere unico, esclusivo
o può trattarsi di pluralità di modelli. Si tratta di una
specie di dialogo che il poeta
intreccia per lo più con i poeti che lo hanno preceduto e che
ha eletto a maestri ideali. Può trattarsi di spie di una scelta
di collocarsi su una linea della tradizione, ma anche, a volte,
di un uso a scopo ironico o addirittura parodistico o
provocatorio, ad indicare contrapposizione, volontà polemica,
presa di distanza. Il modello può essere seguito per il
tema, il contenuto del messaggio o lo stile o per entrambe le
cose, come per lo più avviene. Tocca al critico individuare il
modello, la quantità e l’ambito dei debiti contratti
attraverso un raffronto puntuale tra i testi ai diversi livelli,
filologico e poetico. Molti poeti giungono alla poesia dalla traduzione
di poeti stranieri, anche la traduzione è, infatti, un ottimo
esercizio poetico, e accade che le tracce del poeta tradotto
rimangano spesso consciamente o inconsciamente nel traduttore
poeta. Il poeta esordiente a volte si porta alle spalle un
confuso bagaglio di eredità letteraria non ancora del tutto
selezionata. Neanche ai giorni nostri la poesia può liberarsi di Dante, D’Annunzio, Carducci, Gozzano,
Montale, malgrado il progressivo infittirsi dei riferimenti
letterari e la ricerca sempre nuova di sperimentalismi
linguistici e ritmici. Ma
quali sono i canoni lirici della poesia italiana all’alba del
terzo millennio e quali gli influssi più diretti dei poeti
della prima metà del Novecento sugli Autori tuttora in attività?
Uno
sguardo ravvicinato, sulla scorta della mondadoriana antologia
curata nel 1996 per I Meridiani da
Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, ci permette di evidenziare
come prevalgano
ancora alcuni modelli della prima metà del secolo. Vive ancora, senza essere un’avanguardia, la
poetica cosiddetta espressionistica, quella che, inaugurata nel
primo decennio del secolo scorso dal poeta Georg Heym con la
poesia-documento “A metà dell’inverno”, fu spia di una
grande desolazione esistenziale nata da una percezione della
verità come tragica e contraddittoria,
da una frattura senza mediazione tra l’io e gli altri,
un’immagine deformante della realtà che cancella ogni
rapporto naturalistico, a vantaggio di una lettura onirica della
stessa, mentre solo l’io appare come realmente tangibile. Sono
questi, in sintesi, gli elementi
che si ricavano sin dai primi testi teorici
dell’Espressionismo (1916/17). Bahr, spirito protestatorio e
feroce critico della società borghese, scrive che l’arte
grida nelle tenebre perché esiste solo la disperazione. A causa
del silenzio in cui cadde durante il periodo del fascismo, solo
più tardi ne entrò l’eco in Italia, lo troviamo, infatti, in
Dino Campana (1885/1932) seppur con esiti nuovi e
inconfondibili, insieme alle influenze di Baudelaire, Mallarmè,
Laforgue, Palazzeschi. Quella del Campana fu una personalità
tanto interessante, anche per la sua relazione con Sibilla
Aleramo e, dopo la morte di lei, l’internamento in manicomio,
che se ne creò il mito, tutt’ora sempre verde. Promotore di
una via che condurrà a Ungaretti e Montale, Contini lo definì
un espressionista visivo, mentre Luzi, Bo, Anceschi, Sanguineti
lo consacrarono “poeta visionario”, padre della poesia
contemporanea. Inesauribilmente
fecondo fu poi il Surrealismo, che riprende da Marx e Freud, ma
anche dall’ irrazionalismo nicciano (pensiamo al francese
Eluard): Breton, nel Manifesto del 1924, definiva surrealisti
Dante, Shakespeare, Rimbaud, Baudelaire, essendo l’artista,
poeta o pittore, un ricettacolo sordo degli echi
dell’inconscio (pensiamo a
Mirò, Dali, Chagall). Molto
forte è ancora oggi l’influsso di Ungaretti, il quale amava
definirsi “un frutto d’innumerevoli innesti”: dai
Simbolisti, particolarmente Mallarmè (l’abi^me, è il
baratro ungarettiano, l’inconnu è il suo mistero), ai
poeti del Seicento (Gongora e Racine, Tasso), a Virgilio
(pensiamo a “Terra promessa” del 1950). Fortissima
la presenza di Montale, con i debiti da lui contratti con il
Baudelaire delle corrispondenze e l’Eliot del correlativo oggettivo. In
estrema sintesi, all’alba del terzo millennio, i poeti
contemporanei prediligono ancora particolarmente la linea
Rimbaud – Mallarmé – Ungaretti- Eliot – Montale, con
netta preferenza per un linguaggio evocativo, atemporale,
monotonale e antiespressivo che riprende dagli ermetici in
particolare:
-
un lessico selettivo che privilegia vocaboli elementari
di ampio respiro cosmico: terra/cielo/ vento/ acque/ pianure/
azzurro/ verde;
-
uso del sostantivo assoluto con caduta dell’articolo
che lo precede (“monti secchi, pianure d’erba prima”:
Quasimodo);
-
frequenza della preposizione “a” come
locuzione spaziale indeterminata (“alle eccelse città battono
i fiumi”: Luzi)
-
verbi e sostantivi forti per denominare stati d’animo,
situazioni esistenziali, con tendenza
all’iperbole (“la sera incendia le fronti… calda è
come sangue”: Sinisgalli, “trafitto da un raggio di sole”:
Quasimodo). Potremmo sintetizzare affermando che oggi domina, insieme al Postcrepuscolarismo, una linea che è
stata definita Postermetismo. Non
si può dimenticare, in quella che, col Mangaldo, è stata ormai
definita “tradizione del Novecento”, l’esperienza
dell’avanguardia del “Gruppo 63” che, esauritosi con breve
stagione nel 1969, con Balestrini, Barilli, Sanguineti e
Guglielmi, sulla scorta di ideologie contro il sistema, fa uso
di uno sperimentalismo come ricerca di una forma antiborghese,
che protesta autonomia rispetto all’industria culturale di
consumo. Continua ad essere questa una linea che sottende una
certa produzione poetica dei nostri giorni. Ancora nel saggio “Poesia italiana 1984”,
Alfonso Berardinelli scrive che il quadro della nuova ricerca
poetica sperimentale è confuso e accidentato,
riferendosi a poeti come Cagnone, De Angelis, Pontiggia, Roboni,
che esordiscono alla fine degli anni ‘70. Tuttavia,
particolarmente interessanti appaiono gli esiti di Zanzotto,
Penna e Fortini, mentre il Pasolini antilirico fa la scelta del
dialetto e riprende il poemetto pascoliano e la terzina dantesca
e Sandro Penna (1906-1977) richiama i poeti di epigrammi
dell’Antologia Palatina di età ellenistica, adotta la
ripetizione come strumento di amplificazione emotiva, predilige
il contrasto, l’ossimoro. Si oppone all’opprimente diffuso rimbombo ermetico
Attilio Bertolucci (1911) che non concentra ma dilata, con
un’operazione antiermetica.
Fecondi gli anni
‘80 che vedono la produzione di Caproni, Luzi e
Zanzotto. Il primo, con il poemetto, si inserisce nella
tradizione colta della ballata stilnovistica e della canzonetta
arcadica mescolandola alla libertà della tradizione orale e del
parlato. Il secondo è amato e imitato per il suo messaggio
fondato su una concezione del dolore metafisico e senza speranza
e le promesse di salvezza fuori dal tempo e dalla storia, da cui
la definizione della sua metafisica da parte di Barberi
Squarotti come “metafisica cristiana”, malgrado la sua
disillusione di impronta laica tragga derivazione dalla
leopardiana “Ginestra” e dal sentimento di disappunto per le
illusioni platoniche dell’umanità. Infine, i poeti della linea lombarda e soprattutto
Vittorio Sereni con i suoi modelli: i poeti neri, Apollinaire,
Corneille, Ezra Pound, e la poetica del trionfo della memoria
che trae la lezione forte da Foscolo e Leopardi. L’influenza di Sereni è evidente in Luciano Erba,
Giovanni Giudici col suo poema d’amante cortese ricalcato
sulla poesia provenzale e Roboni, traduttore di Baudelaire e
della “Recherche”. Sulla linea della poesia di una sperimentazione
basata su elementi linguistici liberi da responsabilità
semantica si attestano Dario Bellezza e Paris. Poiché oggi i materiali linguistici invecchiano
presto, sopravvive la poesia dialettale che Franco Brevini
inserisce nella linea della ricerca poetica di uno
strumento espressivo puro da opporre alla saturazione
letteraria. Si tratta spesso, infatti, di poeti colti,
continuatori di una tradizione letteraria alta che, partendo da
Porta e Belli, mescola questa tradizione alle più significative
esperienze poetiche europee ed extraeuropee: da Witman,
all’Antologia di Spoon River, alla poesia negra, agli
spagnoli Lorca e Neruda. La poesia come scandalo e insieme ripresa naif di
una tradizione eclettica è rappresentata da poeti voyeurs
come Busi e qualche altro, che occupano le pagine dei rotocalchi
e le poltrone dei talk show televisivi. In generale, dunque, possiamo affermare col
Giovanardi (Introduzione a Poeti italiani del Secondo
Novecento, 1945-1995, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano
Giovanardi, Milano, Arnoldo Mondatori Editore, 1996), che, se
l’arco vitale di un canone lirico ha all’incirca una durata
secolare, intorno alla metà di ogni secolo si colloca, grosso
modo, il discrimine tra un canone poetico e l’altro, il
momento in cui un modo egemonico di scrivere in versi scompare,
dopo una crisi in cui cova l’attività generativa del nuovo.
La seconda parte del secolo è, in questa ottica, segnata da una
ricerca pluridirezionale e sostanzialmente eclettica, sempre
accompagnata in altri campi dall’elaborazione di un modello
culturale “forte” che è spesso l’autentica culla del
canone lirico a venire. Così, alla creatività della prima metà del
Novecento, e alla ripresa degli anni Settanta-Ottanta, oggi
sembra subentrata una pausa di riflessione e di afasia nella
quale la grande poesia aspetta il suo messia. Mai come oggi, all’alba del terzo millennio, appaiono
attuali le affermazioni di Benjamin e della Scuola di
Francoforte che, rovesciando la teoria dell’arte come
rispecchiamento, teorizza
l’arte come incessante attesa del miracolo, negazione del
mondo, utopia. E
la profezia dell’utopia quanto
vale per questo mondo e per la nostra esistenza su di esso, che
ci rende più sopportabile, tanto
vale per l’accadimento miracoloso della poesia. Perciò, come la vita in un universo come
desidereremmo che fosse è un sogno che ci capita sempre meno di
fare, così, l’apparizione della poesia è un miraggio cui
sempre meno ci accade di assistere. Anche se di essa l’umanità ha un bisogno senza
fine, come ha bisogno di esorcizzare
la paura della morte.
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