Piergiorgio
Cavallini
filologo, dialettologo, traduttore
NAPOLI DI IERI
PRESENTAZIONE
edizioni A.L.I.
Penna d'Autore, 2005
139 pagine- Prezzo: 10,00 euro
"Voglio bene, perché
ci son nato, al mondo dei vicoli e della povera gente del mio paese.
Di tutti i suoi mali sono depositario e amico, ne parlo perché li
conosco, ne parlo con la speranza di giustificarli, di dimostrare che
prima di risolversi in colpe i mali di Napoli sono soltanto dolore".
Sono le parole che Giuseppe Marotta pone ad epigrafe de L'oro di
Napoli e che andrebbero benissimo anche per questa raccolta di
racconti di Francesca Santucci. Coraggio da vendere,
Francesca, a cimentarsi con un mostro sacro, affascinante ma irto
d'insidie, della napoletanità: mostro sacro perché da sempre palestra
di grandi scrittori, irto d'insidie perché, partendo da basi
(neo)realistiche, è grande il rischio di scivolare - attraverso il
folclore - nel bozzettistico, nei luoghi comuni del vulimmece bene
e d' 'o paese d'o sole. Ma irresponsabile io che oso
presentare questo lavoro, scendendo dalla comoda poltrona del lettore
per salire sullo scomodo scranno del critico ... ma qui, per dirla con
Don Abbondio, "il testimonio consolante della coscienza" mi viene in
aiuto per giustificare tanto ardire, nella fattispecie sotto la
duplice forma dell'amicizia e della stima che nutro per l'Autrice da
un lato e, dall'altro, di quel quarto di sangue napoletano - che per
parte di nonno materno - scorre nelle mie vene. Anche Marotta aveva
dedicato alla madre il suo libro, così come alla sua l'ha dedicato
Francesca, sulla scia dell'insanabile ferita della di lei recente
dipartita … e le madri sono uno degli elementi ricorrenti di questa
silloge, le madri protagoniste dei racconti della Santucci (le parole
madre e mamma ricorrono complessivamente 83 volte nel
testo), come pure le nonne, nominate 51 volte ... e, visto che abbiamo
cominciato, continuiamo a curiosare tra le concordanze di Napoli
di ieri, da me rudimentalmente prodotte col software WordSmith
di Michael Scott edito dalla Oxford University Press. Un primo
dato che salta all'occhio è la preponderanza dei femminili rispetto ai
maschili. Così, accanto alle 83 madri/mamme, abbiamo "solo" 63
fra padri e papà, accanto alle 51 nonne abbiamo
13 nonni (27 se consideriamo il plurale che comprende entrambi
i nonni) ed accanto ad uno stuolo di 136 donne troviamo una
sparuta pattuglia di 72 uomini (oltre a 13 femmine e 5
maschi). Continuando, 37 bambine ed 11 bambini,
28 sorelle e 16 fratelli, 32 zie e 6 zii,
16 ragazze e 12 ragazzi; in parità i vecchi (20 a
20) e, sorprendentemente, 50 mariti contro 41 mogli. A
questo punto spontanea deve
sorgere una domanda: Napoli pullula (o - per meglio dire - l'Arenaccia
pullulava) di donne o è la deformazione, per così dire, professionale
dell'Autrice a scrutare soprattutto le figure femminili e ad annetter
loro, consapevole od inconsapevolmente, un'importanza maggiore di
quella riconosciuta agli omologhi maschili? Io direi che è proprio la
deformazione professionale (sia detto, s'intende, in senso positivo)
dell'autrice e curatrice del sito www.letteraturaalfemminile.it a
suscitare questo interesse, ad acuire quest'angolatura, a riprova d'un
impegno che pervade di sé ogni atto letterario di Francesca e di cui
in detto sito si trova ampia testimonianza, alla quale rimando per il
completamento di questo discorso. Ma tornando a Napoli
- sempre basandoci sulle concordanze - possiamo enucleare numerosi
altri dati frequenziali che c'illuminano sulle scelte e sulle
preferenze narrative dell'Autrice. La parte preponderante del
testo - lessicalmente parlando - è feudo delle relazioni familiari ed
interpersonali, in un microcosmo che è quello delle case
(nominate più di 100 volte), intese come abitazioni e appartamenti,
dove spiccano le cucine (8), del quartiere (38), delle
strade (15), delle piazze (12), dei vicoli (8) e
delle chiese (36) (oltre ad 8 parroci ed 8 preti),
del vicinato (16), dei balconi (18) e delle
bancarelle (4). In questo milieu sociologico - piace notare - la
parola lavoro ricorre solo 12 volte. Un altro dato
ch'emerge dalla lettura delle concordanze e che sgombera
definitivamente il terreno da quello che paventavo accingendomi a
lèggere questi racconti, cui dianzi accennavo quale potenziale
rischio, è l'assenza del bozzettistico, dei luoghi comuni della
napoletanità, degli stereotipi buoni per il turista americano. Infatti
notiamo che il cielo è nominato solo 8 volte, il sole 19
e il mare 20; la pizza 25 - 8 volte la pizzeria -
e il pane 10; la parola canzone ricorre 11 volte,
pasta 6, smorfia 6, amore 5, pesce 5,
presepe 5, cozze 4, lungomare 4, mozzarella
4, pomodori 4, barca 3, calzone 3, innamorati
3, nostalgia 3, quaterna 3, babà 2, femmenelli
2, napoletani 29. Per quanto riguarda
la parte onomasiologica - toponimi e antroponimi - osserviamo che, per
i primi, a parte Napoli nominata 57 volte, Poggioreale
viene citato 10 volte, l’Arenaccia 13 volte, mentre i “mostri sacri”
della toponomastica napoletana, in linea con la sobrietà
antimacchiettistica di sopra indicata, sono presenti in modo più che
discreto: Marechiaro 9 volte, Mergellina 7 e il
Vesuvio solo 3; per i secondi, mi limito ad osservare che quello
che la fa da padrone è Capecelàtro, che compare 21 volte e questa
presenza, avendo destato la mia curiosità di lettore, m’ha portato ad
indagare più da vicino la
genesi e l’architettura del libro. Dietro i personaggi di Vincenzo
Capecelàtro e Giuseppina Arnone si celano Vincenzo Aprea e Giuseppina
Cariello, gli amatissimi nonni materni di Francesca, che in realtà
costituiscono il filo conduttore sottostante alla narrazione,
ricomparendo in diversi racconti, mentre l’occhio del narratore è
quello autobiografico di Francesca, che ha fuso armonicamente assieme
ricordi, sogni ed un bagaglio culturale antico che risale alla
palliata e che l’Autrice, opportunamente, indica in premessa. Ma c’è un’altra
figura – cui accennavo all’inizio - che domina questi racconti, anche
se da dietro le quinte, ed è quella della madre di Francesca,
recentemente scomparsa, vero cuore napoletano e tramite di molti
ricordi e di molte espressioni dialettali, tra le quali quella che
figura nel racconto Il medico di famiglia, che la Signora
ripeteva negli ultimi tempi, quasi presaga della sua fine imminente:
“Lungo la strada che la riportava a casa la povera signora Santoro,
più sconsolata che mai, pensava a se stessa e al poco tempo che le
restava da vivere (e amaramente si ripeteva: ‘Stongo c' 'o culo 'a
fossa.’!)”. Questo accenno alla
parlata dialettale mi porta in un terreno a me amico, in virtù della
mia formazione accademica di filologo italiano e di dialettologo. Non
è certo questa la sede per aprire il discorso dei dialetti e della
loro inesorabile decadenza, né per dibattere del contributo - positivo
o negativo - degli scrittori (soprattutto dei poeti) alla
conservazione o alla disintegrazione della parlata dialettale. Quel
che mi preme segnalare è la nutrita presenza, mai affettata, in questi
racconti, di parole ed espressioni dialettali, talora anche in forma
dialogica come nel caso del bisticcio,
spassosissimo, tra la vecchia Di Gennaro e Giuseppina Arnone:
Puozze sculà.- Cajotola.- Ciantella.- Chiavettiera.- Sanguetta.-
Capera.- Canimma.- Ruzzimma.- Mappina.- Femmena senza zizze.- Zoccola
‘e saittera.- Di ogni espressione dialettale viene data in nota
la traduzione, quando occorre se ne propone l’etimologia e si rimanda
al Vocabolario napoletano-italiano, di Camillo Andreoli.
Soddisfacente anche l’indicazione delle principali fonti letterarie, a
sedare la bramosia di precisione delle mentalità filologiche. Insomma, una lettura
assolutamente da non perdere, quella di Napoli di ieri. E la Napoli di oggi?
L’intenzione originale era di non parlarne, ma giunto alla fine di
queste mie affabulazioni sento di doverlo fare, anche se di sfuggita,
se non altro per non far finta di non sapere quel che sta accadendo
oggi a Napoli, limitandomi però ad un solo accenno, assai pertinente
perché riferito allo stesso quartiere scenario di questo libro.
Curioso di sapere come stessero le cose, oggi, all’Arenaccia, ho
lanciato un ricerca in rete con una serie di parole chiave che
consentissero di capire – a me che vivo in tutt’altra realtà ed in una
diversa area geografica – quanto della Napoli di ieri di Francesca
Santucci fosse ancóra presente. Tra i tanti risultati ottenuti, tutti
ahimé uniformi a livello di compianto e commiserazione, ne cito uno,
che ho trovato all’indirizzo http://www.8colonne.it/PGNEWS10/PGNEW2.HTM,
in cui s’interviene - tra l’altro - sul degrado del monumento al più
grande dei tenori napoletani, che era originario del quartiere:
“‘Stiamo organizzando un comitato civico - spiega Giuseppe Giannini -
per contrastare il degrado dilagante e sollecitare le istituzioni a
rimboccarsi le mani e recuperare il quartiere. Via Arenaccia, via San Giovanni e Paolo e
Piazza Ottocalli sono dimenticate dal resto della città - riflette
l'uomo - i problemi sono tanti: la sicurezza, la viabilità, la
riqualificazione degli spazi pubblici’. Sulla stessa lunghezza d'onda
Raffaele Tubelli, del neo comitato civico: ‘Stiamo raccogliendo le
energie sane della zona - sbotta - per cercare d'invertire la tendenza
che vuole questo pezzo di Napoli, terra di nessuno. Enrico Caruso per
gli abitanti dell'Arenaccia - conclude Tubelli - è un vanto, non è
giusto che la sua memoria sia così barbaramente offesa e oltraggiata’”. Chissà che questo
libro di Francesca Santucci non porti un contributo al risveglio delle
“energie sane” dell’Arenaccia.
Piergiorgio Cavallini
La Spezia, 4 dicembre
2004
MAIL
|