Gianmario Lucini NOTA CRITICA A "NAPOLI DI IERI"
edizioni A.L.I. Penna d'Autore, 2005
...Un narrare dunque che è al tempo stesso uno spaccato della Napoli di alcuni decenni or sono, con le sue figure caratteristiche e magari anche i suoi figuri, le sue abitudini, quell’atmosfera un po’ caotica, un po’ creativa e un po’ fatalista che è l’anima segreta di questa straordinaria città. Gusto popolare e insieme stile vivido e mosso del racconto decadentista, con il suo gusto per il misterioso, l’ambiguo, l’ambivalente, il colpo di scena, il quadretto tipico, ecc. ecc., che Francesca padroneggia con molta competenza scrittoria, da profonda conoscitrice di quel periodo storico e di quella letteratura. E’ dunque, insieme a un omaggio alla madre, anche un omaggio alla sua Napoli (Francesca infatti vive a Dalmine, in provincia di Bergamo, e soffre la lontananza dalla sua terra natìa – come, credo, la maggior parte dei napoletani emigrati: anche questa è una caratteristica della gente partenopea). Colpisce (specie nei primi racconti di Napoli di ieri) il costante riferimento alla morte, vissuta come un popolano di Napoli vive questo rapporto ancor oggi, con una specie di reverenziale timore che fa da opposto a una grande vitalità, a un entusiastico amore per la vita che ha quasi un corrispettivo che possiamo trovare nella poesia classica greca, ma che la gente di Napoli ha nel sangue – la gente del Nord non conosce questo sentimento, questo desiderio di vita, questa gioia di vivere oppure lo vive in maniera abbastanza spenta anche se, va specificato, paradossalmente proprio il partenopeo insieme a questo vitalismo soffre di un certo fatalismo, che traspare anche dai racconti della Santucci, e che il concreto e pragmatico uomo del nord non conosce. La lettura dei due testi è dunque anche un ottimo strumento per capire la mentalità del napoletano, proprio perché Francesca Santucci lo sa incarnare molto bene e con la scrittura di questi testi spontanei e per nulla costruiti ma solo riportati (ricordati e tradotti in scrittura) riesce a “far parlare” qualcosa che non sta nei racconti e non sta – forse – nelle sue stesse intenzioni, che è appunto quell’anima profonda della gente napoletana che da secoli è diversa e caratteristica, che definisce l’identità, la peculiarità di una cultura. C’è insomma un carattere particolare che lega una sonata di Scarlatti a una rappresentazione teatrale di Eduardo De Filippo: è l’essenza della gente napoletana che si trova pari pari anche nei racconti della Santucci. Non vogliamo con questo dire che i racconti della Santucci siano un’opera di sociologia, ma piuttosto che un sociologo ne ricaverebbe molto leggendoli. Infine, la caratteristica di questi racconti sta nella linearità, nella assoluta semplicità della “verve”; tutto si dipana poco a poco come in un racconto del Boccaccio, senza complicazione di trama, senza ricercatezza di effetti, ma in una forma che rammenta l’oralità, la stessa oralità del nonno che racconta una storia al nipotino (curiosa, proprio nei primi racconti se non il primo di Napoli di ieri, questo accenno alle donne che intrattengono i bambini con questo rito del racconto di storie, che man mano che vengono raccontate si accrescono sempre più di particolari fantastici). C’è in tutto questo, oltre che una nostalgia, anche il sentimento di qualcosa che è definitivamente passato non tanto nella propria vita ma nel modo stesso di trasmettere la cultura alle giovani generazioni – cosa della quale oggi si occupano non i nonni o ma la televisione, a suo modo ovviamente. C’è il senso di una perdita, un qualcosa che fa sprofondare il racconti in una dimensione senza tempo, perché il tempo al qual i due libri alludono, pur essendo relativamente vicino ai giorni nostri, non ci sarà più. Gianmario Lucini
|