Se n’è andato il 12
novembre Mario Merola, che è stato, e resterà, non solo
l’appassionato vibrante “Zappatore”, ma il massimo interprete
dello spettacolo più napoletano di tutti, uno degli ultimi
baluardi della cultura popolare partenopea (ma apprezzato anche
all’estero, e non solo dagli immigrati napoletani), rimosso dagli
intellettuali, venerato dalla gente dei quartieri bassi (i
vicoli), amato anche nei quartieri alti, genere antesignano delle
moderne soap (“Un posto al sole”, in particolare), racconto
fortemente emotivo di storie di marginalità e grandi passioni: la
sceneggiata.
Ricordo che ai tempi dell’Università, per una tesina d’esame col
prof. D’Agostino, “Ipotesi per l’analisi di un genere musicale
popolare: la sceneggiata”, mi recai al tempio napoletano della
sceneggiata, il teatro “Duemila”, per concordare interviste con
gli attori, in particolare con Mario e Sal Da Vinci, altri
mammasantissima del genere, allora in scena; ebbene, un addetto
alle pubbliche relazioni, “ ‘a maschera”, assestandosi con un
colpo deciso la coppola in testa, in tono enfatico e complice, a
me che insistevo per contattare tutti i maggiori interpreti del
genere, così sentenziò: Signurì’, lassate perdere all’ate, ‘a
sceneggiata è solo Mario Merola, tutt’ ‘o riesto… è munnezza!
(Signorina, lasciate perdere tutti gli altri, la sceneggiata è
solo Mario Merola, tutto il resto è spazzatura!).
Genere in bilico fra la canzone e il teatro, sostenuta da un
proprio codice morale (l’importanza della famiglia, dell’onore,
della forza), continuamente alimentata da un rapporto interattivo
e viscerale fra pubblico e scena, caduto in disuso negli anni
Ottanta, ha rappresentato l’ambiente sociale del proletariato e
sottoproletariato urbano, in continua proposizione della
disgregazione fra mondo contadino e urbanità, degli antichi sani
valori del primo contrapposti a quelli della modernità, della
cultura di massa, del conflitto fra legge ufficiale, esercitata
contro i deboli, e legge immediata, istintiva, barbaricina,
certamente maggiormente aderente all’etica popolare, quella dei
coltelli.
Per dirla con lo scrittore Enzo Grano:
… un modo tutto napoletano di far la rivoluzione, di dire
balordamente no ai giorni bui che viviamo. Ma d’altro canto,
…anche un modo per liberarsi dalle “porcherie” che quel pubblico
incolto è chiamato a subire giorno dopo giorno, una valvola di
scarico, un momento liberatorio per continuare a vivere senza
nulla chiedere e senza nulla capire. Per continuare a vivere nel
sistema e per il sistema.
Fra lacrime e sospiri, rabbie e vendette, tre i personaggi
fondamentali : “isso, essa, e ‘o malamente (lui, l’uomo perbene;
lei, di costumi discutibili, perché sempre detestabile icona è
stata la donna della sceneggiata; il cattivo, il mascalzone).
Mario Merola se n’è andato, col “cuore spezzato”, secondo le sue
parole, in un tempo in cui spezzato era il cuore della sua
amatissima Napoli, più che mai vilipesa, ma la cronaca di questa
splendida città, ricca di storia, cultura, tradizione, capace di
suscitare emozioni intense ai contemporanei, così come agli
antichi viaggiatori del Settecento, non è sua specifica.
Napoli contiene in sé conflitti storici, ma anche quelli di una
qualsiasi metropoli contemporanea; sua colpa è, probabilmente,
quella di fare scena per l’eclatante, sfolgorante, prepotente
bellezza che non la lasciano passare inosservata, ma non va
criminalizzata solo perché tutto a Napoli fa spettacolo!
In una sua battuta, così il compianto Massimo Troisi recitava:
Napule adda cagna’, cagnate Rovigo (Napoli deve cambiare,
cambiate Rovigo).
Francesca
Santucci
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