Lettera XXIX
Adorata
Carlotta,
la tua
penultima lettera mi ha cagionato molto dolore e sono da due
giorni tremendamente malinconico. Forse tu avevi ragione di
offendertene e di accusarmi di poca delicatezza, ma tu stessa
avevi, come al solito, provocato quei tristi schiarimenti che
interpretasti con la più cieca esagerazione. Confesso di avere
una gran parte, una grandissima parte di torto e te ne chiedo
perdono. Mi correggerò di questo continuo incolparti di fatti di
cui non posso pretendere una giustificazione perché nessun
dovere ti legava a me in quel tempo, e di cui t'ho solamente
parlato per un estremo sentimento di gelosia, e per quel
misterioso egoismo che domina in tutti gli amanti e che vorrebbe
appropriarsi una donna come un oggetto. Fu veramente poco
gentile, poco cavalleresco questo mio procedere, lo so, e lo
conobbi anche allora, ma io vi aveva uno scopo che la tua
squisitezza di sentire avrà potuto indovinare. Non dirmi, però,
che io ti ami per carità, non dirmi che devi acquistare a forza
di lacrime il mio amore, e che non mi pesi ancora troppo perché
non ti possa lasciare. Ciò è ingiusto, è cattivo e mi punisce
amaramente delle offese che ti ho fatto. Ti amo per una
necessità del mio cuore, ti amò perché lo meriti, l'amore non è
cosa che s'imponga, e tutto si può dare per carità, tranne
l'amore. Non vi ha affetto che non costi delle lacrime; e tanto
più se questo affetto unisce degli sventurati come noi. Tu non
ne versasti meno del tuo Ugo, credilo, o Carlotta, credilo, e
quantunque tu mi ripeta ancor oggi con un'amara ironia che tu
fosti la causa di tante mie sventure, posso ben assicurarti che
io imparai da te a veramente piangere e a veramente soffrire.
Felici coloro che piangono, perché non provano l'agonia del
dolore segreto. Vi sono istanti in cui il cuore si frange, e gli
occhi rimangono asciutti, l'uomo soffre e la donna piange. E'
mio destino che io non possa essere compreso, tu mi credi forse
leggero, superficiale, tu non discendesti mai a scrutare in
questo cuore che la sventura...
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