L’altra è colei che
s’ancise amorosa, e ruppe fede al cener di
Sicheo…
Dante, Inferno V
61-62
Secondo la leggenda
delle origini Didone era la figlia di Belo, re
di Tiro. Costretta a fuggire dalla sua patria,
seguita da una nutrita schiera di nobili a lei
fedeli, riparò nel territorio di Cartagine e qui
chiese al re del luogo, Iarba, il permesso di
fondare una città. Il re, deridendola, le
rispose che le avrebbe concesso tanta terra
quanta avrebbe potuto contenerne una pelle di
bue, allora Didone tagliò la pelle a
striscioline sottili, le legò fra loro ed
ottenne una lunga corda con la quale
circoscrisse un’area sufficiente ad edificare
una nuova città, Cartagine, che, in breve tempo,
divenne così florida da attirare le mire di
Iarba, che pretendeva la mano ed il regno di
Didone, minacciandola di muovere guerra se non
avesse accettato. Allora la regina, pur
di non cedere, preferì sacrificare la sua vita,
immolandosi sul rogo funebre al cospetto
del suo popolo che, da quel momento, la
venerò come una divinità. Virgilio nell’Eneide
s’impadronì di questa leggenda e, nonostante fra
la caduta di Troia e la fondazione di Cartagine
intercorressero più di tre secoli, elaborò la
storia d’amore fra Enea e Didone, raccontando
che il famoso progenitore dei Romani, il duce
troiano scampato alla distruzione della sua
città con numerosi compagni, scaraventato dalla
furia del mare sulla costa libica, era stato
dalla regina accolto ed amato tanto da unirsi a
lei, ma, anche se tormentato dalla passione
d’amore, spinto dal volere degli dei, aveva
dovuto riprendere il mare verso l’Italia, cui
era fatalmente destinato. Allora Didone,
disperata, sconvolta, vedendo andarsene via per
sempre colui al quale era ormai legata da
profondo amore, e con il quale aveva pure
ipotizzato nuove nozze, dopo aver invocato dagli
dei una tremenda maledizione su Enea (di trovare
nella nuova patria guerra e dolori, di morire
anzi tempo e che perpetua divenisse la rivalità
tra i suoi discendenti ed il popolo dei Tiri,
cioè fra Roma e Cartagine), saliva sul rogo e si
trafiggeva con la spada avuta in dono proprio da
Enea, mentre la flotta troiana già navigava in
mare aperto. Anche Dante, nella
Divina Commedia, accolse la versione
virgiliana, e fu nella seconda schiera del V
canto dell’Inferno, tra i “peccator
carnali/ che la ragion sommettono al talento”
(38-39), i lussuriosi (divisi in due gruppi,
a seconda che la loro passione fu bassa e
bestiale o ardente e fatale, tale,
quindi, da non contaminare la sostanziale
nobiltà del personaggio), eternamente
trasportati e sferzati da una violenta bufera,
simbolo della bufera dei sensi da cui erano
stati travolti in vita, che collocò Didone, la
fondatrice e regina di Cartagine, che aveva
promesso di restare fedele al defunto marito
Sicheo ma poi, innamoratasi di Enea, in seguito
al suo abbandono, per la disperazione si era
tolta la vita. E, grazie anche alla
fama del poema virgiliano, è proprio quella
della donna abbandonata che si toglie la vita
per amore l’immagine di Didone così spesso
tramandata, anche in pittura; basti pensare ad
un quadro fra i tanti, La morte di Didone
del Guercino, del 1631, che si riferisce
direttamente all’episodio narrato nel IV libro
dell’'Eneide: fallito ogni tentativo di
convincere Enea a non partire, quando dall’alto
della rocca vede le navi dei Troiani che già
sono lontane sul mare, convertitosi il suo
dolore in cocente disperazione, Didone, con la
spada donatagli proprio da Enea, si trafigge
sul rogo che, precedentemente, ha fatto
preparare dalla sorella Anna in cortile, con la
scusa di voler bruciare con riti magici le cose
del suo amato:
Tu
secreta pyram tecto interiore sub auras
erige et arma viri, talamo quae fixa reliquit
impius, exuviasque omnis lectumque iugalem,
quo perii,
superimponas: abolere nefandi
cuncta viri
monumenta iuvat monstratque sacerdos.
Tu, nel cortile più
interno, sotto il cielo, una segreta pira
innalza e sopra ponivi
le sue armi, che nel talamo lasciò appese
l’empio, ed ogni altra
spoglia e il letto
in cui mi persi:
annientare dell’uomo nefando
tutti i ricordi, come
la maga consiglia, è bene.
(Virgilio, Eneide,
IV, 494-498 ).
La rappresentazione
pittorica del Guercino, altamente drammatica,
coglie proprio l’attimo in cui, mentre sullo
sfondo s’allontanano le navi troiane, ed il dio
dell’Amore, Cupido, s’invola, circondata dalle
ancelle che piangono, Didone morente, con la
spada conficcata nel petto, cerca con lo sguardo
quello della sorella che le è accanto sgomenta. Così Virgilio descrisse
la scena finale, con lo sguardo dolente di
Didone, ansioso, errante in ricerca dell’ultima
luce terrena, prima di sprofondare nell’ombra
sotterranea, ed il pianto, allorché l’ebbe
vista:
Ter sese attollens
cubitosque adnixa levavit,
ter revoluta torost
oculisque errantibus alto
quaesivit caelo
lucem ingemuitque reperta.
Tre volte levò il capo
poggiando sui gomiti,
tre volte sul letto
ricadde e, con gli occhi in alto erranti,
la luce al cielo cercò,
e vedutala pianse.
(Virgilio, Eneide,
IV 690-92).
Ma Didone non è una
sola storia, numerose e differenti nel corso dei
secoli sono state le sue interpretazioni
(principessa fenicia, sovrana cartaginese, sposa
devota, barbara, straniera, fascinatrice
sensuale al pari di Medea, amante appassionata
di Enea sacrificata in nome della futura
grandezza di Roma, persino donna fatua e
leggera, al punto da accettare, infine, l’amore
di Iarba, nella rivisitazione del 1641 di
Giovanni Francesco Busenello)1, tanto
che è possibile parlare delle storie di Didone
innestatesi sulla storia originaria.
Comunque, sopra tutti
gli altri, due aspetti si sono imposti: da un
lato quello della donna di potere, la regina,
dall’altra quello, in auge soprattutto in età
romana, semplicemente della donna, anche se non
priva di coraggio e regale dignità. Furono i Greci di
Sicilia, soprattutto Timeo (vissuto fra il IV e
il III secolo a. C., nativo di Tauromenion,
l’odierna Taormina), con le Storie (in
cui narrò anche la lotta fra Roma e Cartagine,
città rivali che egli riteneva fondate nello
stesso anno, legando le loro vicende politiche a
quelle greche) a far conoscere il personaggio di
Theiosso o Elissa o Didone, figura del mondo
orientale famosa soprattutto per le qualità di
regina e sposa fedele, coraggiosa, forte, abile
ed astuta, intelligente e determinata nel
comando che, per sfuggire alla malvagità del
fratello, scappava con un gruppo di fedelissimi
e sbarcava sulle coste settentrionali
dell’Africa, dove fondava Cartagine e allacciava
rapporti di buon vicinato con gli altri popoli;
rifiutando, poi, di sposare Iarba di Massitania,
per restare fedele alla memoria del marito
Sicheo, infine si uccideva. Anche nel suo lavoro
del 1405, Livre de la Cité des Dames,
in cui tratteggiò una visionaria città abitata
solo da donne (regine, sante, martiri,
guerriere, poetesse, indovine) guidate da
Ragione, Rettitudine e Giustizia, Christine de
Pizan ne sottolineò l’aspetto regale, politico,
parlando di Didone proprio in relazione alle
qualità di regina, esaltando la sua “prudenza e
accortezza”, raccontando che il suo primo nome
era Elissa, che era molto bella, che era figlia
di Belo, re dei Fenici, e che aveva un fratello
di nome Pigmalione. Alla morte del padre,
Pigmalione era divenuto re ed Elissa aveva
sposato Acerba Sicheone, o Sicheo, ricco
notabile del luogo e gran sacerdote del tempio
di Ercole. I due si amavano molto
e vivevano felici ma il re Pigmalione, avido
delle ricchezze di Sicheo, per impossessarsene
lo fece uccidere, però, non avendole trovato
soddisfacenti, covava grande rancore verso
Elissa che, resasi conto d’essere in pericolo,
insieme ad un gruppo di fedeli, e ai tesori del
marito, che precedentemente gli aveva fatto
nascondere, riusciva a partire con le navi. Sbarcata in Africa col
suo seguito, e convinto la popolazione locale
che aveva intenzioni pacifiche e che voleva
acquistare della terra per fondare una città,
ottenutala aveva fondato Cartagine (qart
hashdat2 in fenicio, “nuova
città”), governando con leggi giuste, finché,
poi, il destino avverso non si era scagliato
contro di lei. “Promulgò leggi e
ordinamenti perché il popolo potesse vivere
secondo il diritto e la giustizia. Il suo
governo fu notevole e di grande prudenza, al
punto che la sua fama si diffuse dappertutto, e
non si parlava che di lei. Il suo coraggio fuori
del comune, l’audacia, la bella impresa che
aveva compiuto e la grande saggezza nel
governare, le trasformarono il nome: venne
chiamata “Didone”, che sarebbe l’equivalente di
“virago” in latino, cioè colei che ha il
coraggio e la forza di un uomo. Così visse a lungo
nella gloria e avrebbe continuato, se Fortuna
non le fosse stata contraria; poiché la Fortuna
è spesso invidiosa di chi vive nella prosperità,
le riservò una bevanda molto amara.”3 Protagonista assoluta
nel mondo orientale, con un destino simile a
quello di Enea (la perdita della patria, la
fuga, la ricerca di una città da fondare, il
viaggio, secondo alcuni anche il nome di Didone
sarebbe da collegare alla radice semitica NND,
“fuggire”, quindi Didone significherebbe
“l’errante”), fu quando confluì nella cultura
occidentale, legandosi il suo personaggio al
ciclo omerico, che cominciò ad essere
considerata esclusivamente come donna,
incarnando nei vari secoli soprattutto
l’amore-passione, nutrimento del binomio, quanto
mai affascinante, amore-morte. Due, dunque, gli
aspetti fondamentali subito individuabili nel
personaggio di Didone: il primo è quello di
regina dal carattere quasi divino
(etimologicamente Elissa deriva da ‘el-‘issa4,
dio-donna, ed anche Timeo chiamò Didone
Theiosso, da theós, dio, forse per
ricordare il suo sacrificio, o anche che il
potere politico era una sorta d’investitura
divina, giacché il sovrano incarnava la volontà
superiore), intelligente, volitiva, forte,
decisa, che non esita a salpare con i fedeli
verso una terra ignota, astuta (ricorda
l’astuzia dell’Ulisse omerico l’espediente del
taglio minuto della pelle di bue per sottrarre
maggior quantità di terra) e che riesce ad
imporsi. Il secondo aspetto,
superbamente tratteggiato da Virgilio, ancor più
esaltato, forse addirittura esasperato, da
Ovidio, è quello di donna, appassionatamente
innamorata, che, pur conservando sempre la sua
regale dignità, rivela tutte le sue fragilità
femminili, che non perdona e rinfaccia all’uomo
amato il vile tradimento e l’abbandono, che
infine si uccide (secondo la versione più
antica, quella fenicia, si sarebbe uccisa per
non cedere a Iarba, il gaetulus5,
re dei Numidi, e per restare fedele al marito
Sicheo) per il dolore e per aver mancato al voto
di castità vedovile, per l’essere venuta meno al
pudor6, la più bella qualità
di una donna verso se stessa, tanto più per
Didone che aveva promesso alla memoria del
marito di non legarsi mai più ad un altro uomo
ma, come nel seguente passo citato dall’Eneide,Virgilio,
parlando anche di fama, intrecciava le
valutazioni della donna e della regina,
facendole lamentare come donna la perdita del
pudore, come soggetto politico la considerazione
e la stima degli altri:
…te propter eundem
exstinctus pudor et, qua sola
sidera adibam,
fama prior…
…per te, per te solo
ho distrutto il pudore e la fama di prima
per la quale soltanto io salivo alle stelle…
(Virgilio, Eneide,
IV 321-323).
Di questa doppia
natura, regina e donna, nella cultura romana fu
la seconda ad imporsi, soprattutto attraverso la
narrazione di Virgilio che, in toni di acceso
lirismo, ne raccontò la passione d’amore, pur
non mancando di esaltarne le doti politiche,
pressato dall’urgenza di rimarcare l’iter
faticoso, denso di ostacoli,
attraverso il quale si perveniva, infine, alla
fondazione, continuamente ostacolata da forze
avverse, di Roma, e sottintendendo Didone, in
ispirazione alla figura della greca maga Medea,
anche come incarnazione della forza della
barbarie che ostacolava la civiltà. Ma non fu Virgilio ad
inventare la figura di donna innamorata, tradita
e abbandonata (anche se unico fu il modo in cui
scavò nel cuore di Didone sondandone in
successione tutti gli stati d’animo, dalla scoperta del
sentimento all’esplosione della passione alla
disperazione fino all’odio culminante
nell’ultimo colloquio con Enea, in cui, in
un’atmosfera romantica, giganteggia nella
maledizione che da secoli “costringe” il lettore
a parteggiare per lei che soffre per amore,
oscurando il travaglio che pure è nell’animo
dell’eroe troiano, obbligato a soccombere al
destino, vittima e non artefice, biasimato da
tutta la critica romantica e da Benedetto Croce
(Virgilio fece male a far incontrare questo
povero, piccolo borghese, inadatto alle grandi
passione, con una creatura come Didone, B. Croce7),
e non fu nemmeno il prima a parlare della
storica acerrima lotta fra le due grandi potenze
dell’antichità. Virgilio riprese la
figura dell’eroina che soffre le pene d’amore
dalla tradizione greca, da Omero e da Apollonio
Rodio, il celebre poeta epico alessandrino
(derivando la figura di Didone in gran parte proprio dalla
rappresentazione di Medea nelle Argonautiche),
e la lotta fra Roma e Cartagine dalla tradizione
della poesia epico romana, da Ennio e,
soprattutto, da Nevio
che, col Bellum Punicum, aveva
inteso comporre un’opera che, mescolando
leggenda e realtà, tecnica tipica dei poeti
epici, attraverso la narrazione delle vicende di
un eroe leggendario, Enea, dal quale sarebbe
stata fondata Roma, celebrasse le origini
mitiche dell’Urbe, l’epos nazionale, i valori
fondamentali del cittadino romano, come le
virtù guerriere, ed esaltasse le grandi gesta
dei valorosi condottieri. Rifacendosi ai modelli
omerici fuse, così, storia e leggenda, narrando
di Anchise e di Enea, del viaggio di Enea,
dell’incontro con Didone e della sua rinuncia a
lei (gesto ancora più eroico considerando la
grandezza della donna a cui aveva dovuto
rinunciare, addirittura una regina), che serviva
proprio a fissare l’ineluttabile inimicizia
storica fra Roma e Cartagine, terminata, poi,
con lo scontro armato e con la vittoria romana. S’impose, così, la
Didone donna, che metteva in pericolo la futura
fondazione di Roma, e agli occhi dei Romani
importanza enorme assunse la storia d’amore
finita in dramma, perché era proprio con l’abbandono di Enea
che cominciava la vittoria sui Cartaginesi,
anche se, probabilmente, Virgilio non pensava
allo scontro fra le due potenze, ma intendeva
sottolineare l’amore fra due personaggi mitici
fermato da una volontà superiore all’uomo e agli
stessi dei: il Fato. Creatura poetica
originale, che riassume in sé tutte le grandi
eroine classiche, che non teme il paragone con
la Medea di Apollonio Rodio né con la Medea di
Euripide, che pure Virgilio ebbe ben presenti, Didone è
personaggio complesso e altamente drammatico: è
maestosa quando dirige la costruzione della
nuova città, pietosa quando accoglie gli
sventurati naufraghi troiani e ne ascolta le
dolorose vicende, appassionatamente donna
nell’amore, inteso come dedizione assoluta, ed
anche quando, resasi conto dell’inganno della
partenza di Enea, che le brucia più della
partenza stessa, lo accusa di perfidia con toni
che passano dalla supplica alla furia allo
sdegno alla maledizione. Didone è dignitosamente
regina quando, in considerazioni politiche,
ricorda l’odio pericoloso dei tiranni e dei
Tiri, suscitato proprio a causa di Enea; quando
è ferma nei suoi propositi di suicidio; quando,
non tollerando più la vista di colui che ha
infranto il patto d’amore, tronca
tempestosamente il colloquio, ed anche dopo,
quando, nell’oltretomba non gli rivolge nemmeno
uno sguardo. Di fronte a questa
figura femminile così palpitante, di fronte al
dramma che vive, Enea, eroe pensoso, anche se
costretto a lanciarsi nella mischia,
assoggettato in tutta la vicenda al volere
superiore, al quale sacrifica sentimenti e
volontà personale (certo, perché consapevole
dell’alta missione di cui è investito e della
responsabilità che ha verso il suo popolo,
costretto a scappare dalla città in fiamme,
privato della moglie amatissima, in ricerca di
una nuova patria che continuamente gli sfugge)
appare poeticamente inferiore ma, nel gioco
delle parti, proprio questo suo atteggiamento
pone maggiormente in risalto la figura di Didone.
In fondo, se Enea
abbandona Didone è perché così vuole il Fato, la
sua volontà umana non può che sottostarvi,
dunque è l’inevitabile destino che uccide
l’amore e che separa per sempre gli sfortunati
amanti. Eppure Enea e Didone si
rivedranno, o meglio Enea rivedrà Didone quando,
nel VI canto dell’Eneide, accompagnato
dalla Sibilla Cumana, ci sarà la catabasi nel
regno tenebroso dell’Ade: qui, nei Campi del
Pianto, dove giacciono le anime dei suicidi per
amore, incontrerà inaspettatamente Didone. Enea
la riconoscera subito, le si avvicinerà e,
piangendo, le rivolgerà parole affettuose,
cercherà di giustificare il suo abbandono in
nome della sottomissione agli ordini superiori
degli dei e degli uomini, quelli del Fato, le
giurerà che a malincuore partì e che mai avrebbe
creduto di poterne causare la morte, ma Didone,
torva, muta, sebbene lui le parlerà con “dolce
amore” (dulcique adfatus amorest), non
perdonerà nemmeno dopo la morte perché non si
perdona un’offesa d’amore, e lui la offese
mortalmente tradendo il patto fra loro; non gli
risponderà, non gli rivolgerà
nemmeno uno sguardo e, sdegnosa e implacabile,
si allontanerà, andando a raggiungere l’ombra di
Sicheo, il suo primo sposo, al quale si sarà
ricongiunta nel regno dei morti.
Illa solo fixos oculos aversa tenebat,
nec magis incepto voltum sermone movetur,
quam si dura silex aut stet Marpesia cautes.
Tandem corripuit sese atque inimica refugit
In nemus umbriferum, coniunx ubi pristinus
illi
Respondet curis aequatque
Sychaeus amorem.
Quella, rivolta di spalle, gli occhi teneva
fissi per terra
né
il volto si mosse a quell’iniziato discorso,
ma
dura fu come pietra o come roccia Marpesia,
infine s’involò e nemica disparve
nel bosco ombroso dove il suo primo marito,
Sicheo, condivide gli affanni e ricambia
l’amore.
(Virgilio, Eneide,
VI 469-474).
In epoca romana di
Didone svanì, dunque, l’immagine di regina e
s’impose quella di donna, e fu Ovidio ad
esaltarne l’aspetto sentimentale, languido e
sospiroso, nella VII epistola della sua opera
Heroides, epistolario d’amore, comprendente
quindici lettere scritte da eroine del mito ai
loro amanti, e sei costituite da tre coppie,
comprendenti tre lettere di eroi alle donne
amate, con le risposte di queste ultime. Ovidio, infatti, in
estremizzazione dei dettami della poetica
neoterica, che prediligeva le tematiche
amorose, umanizzò il mito, perciò lo sfondo
dell’antichità gli servì solo per incastonare in
un’aura distaccata e fiabesca personaggi comuni
dei quali studiarne i moti del cuore, essendo
interessato non alla dimensione tragica, ma alle
emozioni più intime, e proprio la scelta
dell’epistola poetica gli fornì il pretesto per
intessere un monologo patetico in cui l’eroina
di turno potesse dare sfogo ai sentimenti e alle
recriminazioni nei confronti dell’amante dal
quale era stata abbandonata o tradita, piangendo
e lamentandosi, imprecando e maledicendo. Nella VII lettera delle
Heroides Ovidio non intese narrare la
passione estrema, come aveva fatto Virgilio,
ma intonare il canto altissimo dell’amore,
che offre felicità e tormento, speranza e
disperazione, che non dà certezze e che, se
ostacolato o tradito, diviene abbandono al
destino crudele, e le parole di Didone, nell’Eneide
sfogo impetuoso da inserire nella complessiva
narrazione epica del poema, per Ovidio, non
interessato al Fato come causa dell’abbandono di
Enea, divengono stanca confessione dell’amore
tradito. Didone, colta in tutte
le manifestazioni femminili del sentimento,
nella lettera di Ovidio è supplice; adoperando
tutti gli argomenti possibili che una donna
disperata, abbandonata senza colpa, possa usare
per cercare di trattenere a sé l’uomo che ama,
pur di non perderlo, arrivando anche ad
umiliarsi proponendo ad Enea di rinunciare alle
nozze, l’intero monologo, nonostante esordisca affermando il
contrario, è volto a convincere e a persuadere:
8
Nec quia te nostra
sperem prece posse moveri, alloquor…
E non mi rivolgo a te
fiduciosa di poterti commuovere con la mia
supplica…
(Ovidio, Didone a
Enea, VII 5).
Ovidio, dimentico della
regina, si sofferma esclusivamente sulle
reazioni della donna (ritratta in lacrime, in
preda ai ricordi, al rimpianto, alla nostalgia),
che non riesce ad odiare il perfidus,
nonostante ne abbia tutti i motivi, ma che
continua ad amare:
Non tamen Aeneam, quamvis male cogitat, odi,
sed queror infidum quaestaque
peius amo.
Tuttavia non odio Enea, sebbene trami la mia
sventura,
ma
lamento la sua slealtà e, pur lamentandomi, di
più io lo amo .
(Virgilio, Eneide,
VII 29-30 ).
La Didone ovidiana si
offre anche razionale ed abile calcolatrice,
ricorrendo a tutti gli argomenti più convincenti
pur di non perdere Enea, anche ipotizzando una
presunta gravidanza della quale, invece, la
Didone virgiliana si rammaricava. Così in Virgilio:
Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset
ante fugam sboles, si quis
mihi parvolus aula
luderet Aeneas, qui te tamen ore referret
non equidem omnino capta ac deserta viderer.
Se
almeno avessi concepito di te un figlio
prima della tua fuga, se in questo palazzo
giocasse un piccolo Enea che pure ti
rassomigliasse,
di
certo non mi parrebbe d’essere stata del tutto
ingannata e lasciata.
(Virgilio, Eneide,
IV 327-330).
Così in Ovidio:
Forsitan et gravidam Didon,
scelerate, relinquas
pasque tui lateat corpore
clausa meo.
Accedet fatis matris
miserabilis infans
et nondum nati funeris auctor
eris...
Sciagurato, forse tu abbandoni Didone anche
incinta
e
una parte di te racchiusa e celata è nel mio
ventre.
Condividerà il destino della madre la sventurata
creatura
e
tu sarai responsabile della morte di chi ancora
non è nato…
(Ovidio, Didone a
Enea, VII 135-138).
Didone infine spera che
Enea torni ad amarla o, almeno (e qui Ovidio
intende l’amore alla maniera elegiaca, come
cura), che si lasci da lei amare:
Parce, Venus, nurui durumque
amplectere fratrem
frater Amor; castris militet
ille tuis
Aut ego quem coepi, neque enim dedignor,
amare
materiam curae praebeat ille meae.
Risparmia, Venere, la tua nuora, e il tuo
crudele fratello,
tu, fratello Amore, abbraccia; che egli militi
nelle tue schiere,
o
almeno, giacché cominciai io ad amarlo, e di ciò
non mi vergogno,
fa’ che almeno egli fornisca materia alla mia
passione.
(Ovidio, Didone a
Enea, VII 33-34).
L’epistola VII, così
persuasiva, ad un’attenta lettura proprio non si
rivela quella di una donna in procinto di
suicidarsi, nonostante non manchino le immagini
di morte, come quella iniziale del cigno e
quella finale di Didone che scrive con in grembo
la spada, dono di Enea, con la quale si toglierà
la vita:
Sic ubi fata vocant, udis
abiectus in herbis
ad vada Maeandri concinit albus olor.
Così quando il destino chiama, mentre langue
sull’umida erba,
presso gli acquitrini del Meandro, il bianco
cigno canta.
(Ovidio, Didone a
Enea, VII 3).
Adspicias utinam quae sit
scribentis imago;
scribimus, et gremio Troicus
ensis adest;
serque genas lacrimae
strictum labuntur in ensem,
qui iam pro lacrimis sanguine tinctus erit.
Oh, se tu vedessi l’immagine di colei che chi ti
scrive!
Scrivo e in grembo tengo la spada troiana;
lungo le guance le lacrime scivolano giù sulla
spada sguainata,
che fra poco sarà bagnata non di lacrime, ma di
sangue.
(Ovidio, Didone a
Enea, VII 185-186).
Persino le maledizioni
feroci invocate nell’Eneide su Enea e sui
suoi discendenti in Ovidio si addolciscono e
divengono timori:
I, sequere Italiam ventis, pete regna per
undas;
spero equidem mediis, si quid pia numina
possunt,
supplicia hausurum scopulis
et nomine Dido
saepe vocaturum…
vattene, cerca pure l’Italia a forza di vento,
cercati il regno fra le onde,
ma
spero che in mezzo al mare, se gli dei giusti lo
possono,
fra gli scogli sconterai la pena, e allora sì,
che spesso
invocherai il nome di Didone!
(Virgilio, Eneide,
IV 381-383).
Perdita ne perdam, timeo, noceamve nocenti
neu bibat aequoreas naufragus hostis aquas.
Rovinata, temo di mandare in rovina, o di
nuocere a chi mi nuoce
o
che il mio nemico, naufragando, le acque del
mare beva .
(Ovidio, Didone a
Enea, VII 61-62).
Ovidio lascia che anche
gli ultimi pensieri di Didone siano
rivolti all’uomo amato:
Praebuit Aeneas et causam
morti set ensem;
ipsa sua Dido concidit usa manu.
Il motivo della morte e
la spada fornì Enea;
con la sua stessa mano
si tolse la vita Didone.
(Ovidio, Didone a
Enea, VII 197-198).
Poeta elegiaco, che
proponeva una poesia intima e soggettiva,
indifferente agli sforzi di Augusto di
risanamento morale e civile dello Stato e della
società romana, ed opposta all’impegno poetico
di Virgilio, Ovidio adattò all’elegia un
personaggio dell’epica, premendogli
rappresentare non la dimensione pubblica ma
quella privata, non l’eroica regina, la
“virago”, ma la donna nel quotidiano (è,
infatti, la donna che scrive il suo ultimo
disperato messaggio d’amore, la lettera, mai
l’avrebbe scritto la regina), colta nella sua
femminilità fragile e dolente, in dipendenza
affettiva da colui al quale è relazionata la sua
stessa identità: l’uomo. E’ per questo che
Didone, relicta, priva di ogni dignità
regale, piange e supplica, implora e si dispera,
invoca e scongiura, anche se abbandonata,
tradita, non potendo essere altro per lei Enea,
pur nel contrasto dei sentimenti, che oggetto
d’amore, continuando ad importarle sempre e solo
di lui; ed anche il rimpianto, per il pudor
a cui è venuta meno, si lega alla perdita di
Enea e non all’intrinseco suo valore e, ben più
grave ai suoi occhi di donna, permane il
tradimento d’amore dell’uomo verso la donna,
piuttosto che quello verso la comunità, specchio
della mentalità ovidiana che anteponeva la sfera
privata a quella pubblica. Come a tutte le eroine
di Ovidio anche a Didone è estranea la lussuria,
nonostante abbia consumato nella fisicità
l’amore conserva sempre una sua purezza;
diluendo la contrapposizione fra castità e
desiderio amoroso anche in questo punto Ovidio
si differenziò da Virgilio. A Virgilio interessava
la narrazione epica, perciò elaborare la storia
d’amore, impetuosa ed estrema, fra due
personaggi mitici, finita poi nell’odio, serviva
a giustificare che la grande storia di Roma era
iniziata con l’inimicizia e la vittoria sui
Cartaginesi; premeva, invece, ad Ovidio, poeta
abituato a scrutare nell’animo umano,
soprattutto in quello degli innamorati (tenerorum
lusorum amorum si definì nella giovinezza,
cfr. Tristia. 3.3.73; 4. 10 .1),
rappresentare nelle Heroides, attraverso
personaggi famosi del mondo mitologico ed
eroico, figure contemporanee, parlare dell’amore
che travolge l’animo femminile e che non ha
limiti di tempo perché è sentimento universale
ed eterno, e forse è per questo che
continuiamo a ricordare ancora oggi soprattutto
l’immagine della donna, non della regina, Didone. Comunque, in entrambe
le versioni, sia in quella virgiliana che in
quella ovidiana, di Didone, figura estremamente
femminile, colpisce anche l’elemento “maschile”
già rilevato da Christine de Pizan allorché la
definì “virago”: la forza. Ed è proprio la forza
(di carattere, che le permette di lottare fino
alla fine, piegandosi solo quando vano risulta
ogni tentativo di contrastare il volere del
Fato; dell’amore, che la spinge a tentare di
tutto pur di non perdere l’uomo che ama, poiché
consapevole di non poter vivere con lui ma
nemmeno senza di lui; del tentativo estremo di
convincimento, la lettera, e della coraggiosa
risoluzione finale, la scelta del suicidio e in
forma così brutale; dell’orgoglio, che le
consente, nell’aldilà, d’ignorare e di lasciare
senza perdono l’uomo che l’ha tradita, Enea, che
per altri valori ha sacrificato il valore
supremo, l’amore) che, unendosi alla
femminilità, ricompone in una le due anime di
Didone: quella di donna e quella di regina.
Francesca Santucci
1) Quella di Busenello è una Didone “ancorata
all’ambiente veneziano del primo Seicento,
libertino e gaudente”, B. Brizi, in P. Bono- M.
V. Tessitore, Il mito di Didone, Bruno
Mondatori, Milano 1998, p. 372.
2) P. Bono- M. V Tessitore, op. cit., p. 9.
3) Ch.de Pizan, op. cit., a cura di P. Caraffi.
Edizione di E. J. Richards , Luni Editrice,
Trento, 19982, p. 211.
4) P. Bono- M. V Tessitore, op. cit., p. 10.
5. Iarba nell’Eneide è detto Gaetulus,
che significa Africano, in realtà era il re dei
Numidi, P.Todde- L. Mosti, “Best
seller di Roma antica”, editori Laterza,
Roma- Bari 1988 p. 373.
6. Il termine pudor in latino ha una
risonanza molto più ampia e complessa rispetto
al suo corrispettivo italiano “pudore”. Pudor
infatti indica non tanto “ritegno”, “riserbo”,
“ritrosia” nell’ambito sessuale (per questo si
veda il termine pudicitia), quanto il
senso della dignità e dell’onore che impediscono
all’uomo di compiere gesti di cui dovrebbe
vergognarsi (pudor deriva dalla stessa
radice del verbo impersonale pudet). In
questo senso il pudor non interessa
soltanto le fanciulle ma tutti gli uomini, e non
riguarda solo la sfera sessuale ma ogni aspetto
del comportamento: era ad esempio il pudor
che imponeva al soldato di soffocare la paura e
di non abbandonare il suo posto in battaglia.
Tale sentimento di dignità verso se stessi e
verso gli altri venne anche personificato in una
divinità oggetto di culto, che si chiamava
Pudor, secondo l’uso tipicamente romano di
divinizzare concetti astratti, cfr N. Flocchini-
P. Guidotti Bacci, “Il nuovo libro degli
autori”, Bompiani, Milano 1996, pag. 613.
7) Cfr. P. Todde- L. Mosti, op. cit . ,
p. 371.
8) “Questa lettera non è in nessun modo
l’annuncio di un suicidio: è, invece, in ogni
suo particolare, in ogni significativa
declinazione e revisione del modello virgiliano,
un tentativo di riconquistare Enea”, A.
Barchiesi, Narratività e convenzione nelle “Heroides”,
in Ovidio, Eroidi, Garzanti, Milano 1996, p. 89.
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