Francesca Santucci

Didone

(Francesca Santucci, Messaggi dall'antichità, Kimerik  2005, estratto)

 

 

 

L’altra è colei che s’ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo…

Dante, Inferno V 61-62

 

Secondo la leggenda delle origini Didone era la figlia di Belo, re di Tiro. Costretta a fuggire dalla sua patria, seguita da una nutrita schiera di nobili a lei fedeli, riparò nel territorio di Cartagine e qui chiese al re del luogo, Iarba, il permesso di fondare una città.
Il re, deridendola, le rispose che le avrebbe concesso tanta terra quanta avrebbe potuto contenerne una pelle di bue, allora Didone tagliò la pelle a striscioline sottili, le legò fra loro ed ottenne una lunga corda con la quale circoscrisse un’area sufficiente ad edificare una nuova città, Cartagine, che, in breve tempo, divenne così florida da attirare le mire di Iarba, che pretendeva la mano ed il regno di Didone, minacciandola di muovere guerra se non avesse accettato.
Allora la regina, pur di non cedere, preferì sacrificare la sua vita, immolandosi sul rogo funebre al cospetto del suo popolo che, da quel momento, la venerò come una divinità.
Virgilio nell’Eneide s’impadronì di questa leggenda e, nonostante fra la caduta di Troia e la fondazione di Cartagine intercorressero più di tre secoli, elaborò la storia d’amore fra Enea e Didone, raccontando che il famoso progenitore dei Romani, il duce troiano scampato alla distruzione della sua città con numerosi compagni, scaraventato dalla furia del mare sulla costa libica, era stato dalla regina accolto ed amato tanto da unirsi a lei, ma, anche se tormentato dalla passione d’amore, spinto dal volere degli dei, aveva dovuto riprendere il mare verso l’Italia, cui era fatalmente destinato. Allora Didone, disperata, sconvolta, vedendo andarsene via per sempre colui al quale era ormai legata da profondo amore, e con il quale aveva pure ipotizzato nuove nozze, dopo aver invocato dagli dei una tremenda maledizione su Enea (di trovare nella nuova patria guerra e dolori, di morire anzi tempo e che perpetua divenisse la rivalità tra i suoi discendenti ed il popolo dei Tiri, cioè fra Roma e Cartagine), saliva sul rogo e si trafiggeva con la spada avuta in dono proprio da Enea, mentre la flotta troiana già navigava in mare aperto.
Anche Dante, nella Divina Commedia, accolse la versione virgiliana, e fu  nella seconda schiera del V canto dell’Inferno, tra i “peccator carnali/ che la ragion sommettono al talento” (38-39), i lussuriosi (divisi in due gruppi, a seconda che la loro passione fu bassa e bestiale o ardente e fatale, tale, quindi, da non contaminare la sostanziale nobiltà del personaggio), eternamente trasportati e sferzati da una violenta bufera, simbolo della bufera dei sensi da cui erano stati travolti in vita, che collocò Didone, la fondatrice e regina di Cartagine, che aveva promesso di restare fedele al defunto marito Sicheo ma poi, innamoratasi di Enea, in seguito al suo abbandono, per la disperazione si era tolta la vita.
E, grazie anche alla fama del poema virgiliano, è proprio quella della donna abbandonata che si toglie la vita per amore l’immagine di Didone così spesso tramandata, anche in pittura; basti pensare ad un quadro fra i tanti, La morte di Didone del Guercino, del 1631, che si riferisce direttamente all’episodio narrato nel IV libro dell’'Eneide: fallito ogni tentativo di convincere Enea a non partire, quando dall’alto della rocca vede le navi dei Troiani che già sono lontane sul mare, convertitosi il suo dolore in cocente disperazione, Didone, con la spada donatagli proprio da Enea,  si trafigge sul rogo che, precedentemente, ha fatto preparare dalla sorella Anna in cortile, con la scusa di voler bruciare con riti magici le cose del suo amato:

Tu secreta pyram tecto interiore sub auras

erige et arma viri, talamo quae fixa reliquit

impius, exuviasque omnis lectumque iugalem,

quo perii, superimponas: abolere nefandi

cuncta viri monumenta iuvat monstratque sacerdos.

 

Tu, nel cortile più interno, sotto il cielo, una segreta pira

innalza e sopra ponivi le sue armi, che nel  talamo lasciò appese

l’empio, ed ogni altra spoglia e il letto

in cui mi persi: annientare dell’uomo nefando

tutti i ricordi, come la maga consiglia, è bene.

(Virgilio, Eneide, IV, 494-498 ).    

 

La rappresentazione pittorica del Guercino, altamente drammatica, coglie proprio l’attimo in cui, mentre sullo sfondo s’allontanano le navi troiane, ed il dio dell’Amore, Cupido, s’invola, circondata dalle ancelle che piangono, Didone  morente, con la spada conficcata nel petto, cerca con lo sguardo quello della sorella che le è accanto sgomenta.
Così Virgilio descrisse la scena finale, con lo  sguardo dolente di Didone, ansioso, errante in ricerca  dell’ultima luce terrena, prima di sprofondare nell’ombra sotterranea, ed il pianto, allorché l’ebbe vista:

Ter sese attollens cubitosque adnixa levavit,

ter revoluta torost oculisque errantibus alto

quaesivit caelo lucem ingemuitque reperta.

 

Tre volte levò il capo poggiando sui gomiti,

tre volte sul letto ricadde e, con gli occhi in alto erranti,

la luce al cielo cercò, e vedutala pianse.

(Virgilio, Eneide, IV 690-92).   

 

Ma Didone non è una sola storia, numerose e differenti nel corso dei secoli sono state le sue interpretazioni (principessa fenicia, sovrana cartaginese, sposa devota, barbara, straniera, fascinatrice sensuale al pari di Medea, amante appassionata di Enea sacrificata in nome della futura grandezza di Roma, persino donna fatua e leggera, al punto da accettare, infine, l’amore di Iarba,  nella rivisitazione del 1641 di Giovanni Francesco Busenello)1, tanto che è possibile parlare delle storie di Didone innestatesi sulla storia originaria. Comunque, sopra tutti gli altri, due aspetti si sono imposti: da un lato quello della donna di potere, la regina, dall’altra quello, in auge soprattutto in età romana, semplicemente della donna, anche se non priva di coraggio e regale dignità.
Furono i Greci di Sicilia, soprattutto Timeo (vissuto fra il IV e il III secolo a. C., nativo di Tauromenion, l’odierna Taormina), con le Storie (in cui narrò anche la lotta fra Roma e Cartagine, città rivali che egli riteneva fondate nello stesso anno, legando le loro vicende politiche a quelle greche) a far conoscere il personaggio di Theiosso o Elissa o Didone, figura del mondo orientale famosa soprattutto per le qualità di regina e sposa fedele, coraggiosa, forte, abile ed astuta, intelligente e determinata nel comando che, per sfuggire alla malvagità del  fratello, scappava con un gruppo di fedelissimi e sbarcava sulle coste settentrionali dell’Africa, dove fondava Cartagine e allacciava rapporti di buon vicinato con gli altri popoli; rifiutando, poi,  di sposare Iarba di Massitania,  per restare fedele alla memoria del marito Sicheo, infine si uccideva.
Anche nel suo lavoro del 1405, Livre de la Cité des Dames, in cui tratteggiò una visionaria città abitata solo da donne (regine, sante, martiri, guerriere, poetesse, indovine) guidate da Ragione, Rettitudine e Giustizia, Christine de Pizan ne sottolineò l’aspetto regale, politico, parlando di Didone proprio in relazione alle qualità di regina, esaltando la sua  “prudenza e accortezza”, raccontando che il suo primo nome era Elissa, che era molto bella, che era figlia di Belo, re dei Fenici, e che aveva un fratello di nome Pigmalione.
Alla morte del padre, Pigmalione era divenuto re ed Elissa aveva sposato Acerba Sicheone, o Sicheo, ricco notabile del luogo e gran sacerdote del tempio di Ercole.
I due si amavano molto e vivevano felici ma il re Pigmalione, avido delle ricchezze di Sicheo, per impossessarsene lo fece uccidere, però, non avendole trovato soddisfacenti, covava grande rancore verso Elissa che, resasi conto d’essere in pericolo, insieme ad un gruppo di fedeli, e ai tesori del marito, che precedentemente gli aveva fatto nascondere, riusciva a  partire  con le navi.
Sbarcata in Africa col suo seguito, e convinto la popolazione locale che aveva intenzioni pacifiche e che voleva acquistare della terra per fondare una città, ottenutala aveva fondato Cartagine (qart hashdat2 in fenicio, “nuova città”), governando con leggi giuste, finché, poi, il destino avverso non si era scagliato contro di lei.
“Promulgò leggi e ordinamenti perché il popolo potesse vivere secondo il diritto e la giustizia. Il suo governo fu notevole e di grande prudenza, al punto che la sua fama si diffuse dappertutto, e non si parlava che di lei. Il suo coraggio fuori del comune, l’audacia, la bella impresa che aveva compiuto e la grande saggezza nel governare, le trasformarono il nome: venne chiamata “Didone”,  che sarebbe l’equivalente di “virago” in latino, cioè colei che ha il coraggio e la forza di un uomo.
Così visse a lungo nella gloria e avrebbe continuato, se Fortuna non le fosse stata contraria; poiché la Fortuna è spesso invidiosa di chi vive nella prosperità, le riservò una bevanda molto amara.”3
Protagonista assoluta nel mondo orientale, con un destino simile a quello di  Enea (la perdita della patria, la fuga, la ricerca di una città da fondare, il viaggio, secondo alcuni anche il nome di Didone sarebbe da collegare alla radice semitica NND, “fuggire”, quindi Didone significherebbe “l’errante”), fu quando confluì nella cultura occidentale, legandosi il suo personaggio al ciclo omerico, che cominciò ad essere considerata esclusivamente come donna, incarnando nei vari secoli soprattutto l’amore-passione, nutrimento del binomio, quanto mai affascinante, amore-morte.
Due, dunque, gli aspetti fondamentali subito individuabili nel personaggio di Didone: il primo è quello di regina dal carattere  quasi divino (etimologicamente Elissa deriva da ‘el-‘issa4, dio-donna, ed anche Timeo chiamò Didone Theiosso, da theós, dio, forse per ricordare il suo sacrificio, o anche  che il potere politico era una sorta d’investitura divina, giacché il sovrano incarnava la volontà superiore), intelligente, volitiva, forte, decisa, che non esita a salpare con i fedeli verso una terra ignota, astuta (ricorda l’astuzia dell’Ulisse omerico l’espediente del taglio minuto della pelle di bue per  sottrarre maggior quantità di terra) e che riesce ad imporsi.
Il secondo aspetto, superbamente tratteggiato da Virgilio, ancor più esaltato, forse addirittura esasperato, da Ovidio, è quello di donna, appassionatamente innamorata, che, pur conservando sempre la sua regale dignità, rivela tutte le sue fragilità femminili, che non perdona e rinfaccia  all’uomo amato il vile tradimento e l’abbandono, che infine si uccide (secondo la versione più antica, quella fenicia, si sarebbe uccisa per non cedere a Iarba, il gaetulus5, re dei Numidi, e per restare fedele al marito Sicheo) per il dolore e per aver mancato al voto di castità vedovile, per l’essere venuta meno al pudor6, la più bella qualità di una donna verso se stessa, tanto più per Didone che aveva promesso alla memoria del marito di non legarsi mai più  ad un altro uomo ma, come nel seguente passo citato dall’Eneide,Virgilio, parlando anche di fama, intrecciava le valutazioni della donna e della regina, facendole lamentare come donna la perdita del pudore, come soggetto politico la considerazione e la stima degli altri:

…te propter eundem

exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam,

fama prior…

…per te, per te solo

 ho distrutto il pudore e la fama di prima

 per la quale soltanto io salivo alle stelle

(Virgilio, Eneide, IV 321-323).

 

Di questa doppia natura, regina e donna, nella cultura romana fu la seconda ad imporsi, soprattutto attraverso la narrazione di Virgilio che, in toni di acceso lirismo, ne raccontò la passione d’amore,   pur non mancando di esaltarne le doti politiche,   pressato dall’urgenza    di rimarcare l’iter faticoso, denso di ostacoli, attraverso il quale si perveniva, infine,  alla fondazione, continuamente ostacolata da forze avverse, di Roma, e sottintendendo Didone, in ispirazione alla figura della greca maga Medea,  anche come incarnazione della forza della barbarie che ostacolava la civiltà.
Ma non fu Virgilio ad inventare la figura di donna innamorata, tradita e abbandonata (anche se  unico fu il modo in cui scavò nel cuore di Didone sondandone in successione  tutti gli stati d’animo, dalla scoperta del sentimento all’esplosione della passione alla disperazione fino all’odio culminante nell’ultimo colloquio con Enea, in cui, in un’atmosfera romantica, giganteggia nella maledizione che da secoli “costringe” il lettore a parteggiare per lei che soffre per amore, oscurando il travaglio che pure è nell’animo dell’eroe troiano, obbligato a soccombere al destino, vittima e non artefice, biasimato da tutta la critica romantica e da Benedetto Croce (Virgilio fece male a far incontrare questo povero, piccolo borghese, inadatto alle grandi passione, con una creatura come Didone, B. Croce7), e non fu nemmeno il prima a parlare della storica acerrima lotta fra le due grandi potenze dell’antichità.
Virgilio riprese la figura dell’eroina  che soffre le pene d’amore dalla tradizione greca, da Omero e da Apollonio Rodio, il celebre poeta epico alessandrino (derivando la figura di Didone in gran parte proprio dalla rappresentazione  di Medea nelle Argonautiche), e la lotta fra Roma e Cartagine dalla tradizione della poesia epico romana, da Ennio e, soprattutto, da Nevio che, col Bellum Punicum, aveva inteso comporre un’opera che, mescolando leggenda e realtà, tecnica tipica dei poeti epici, attraverso la narrazione delle vicende di un eroe leggendario, Enea, dal quale sarebbe stata fondata Roma, celebrasse le origini mitiche dell’Urbe, l’epos nazionale, i valori fondamentali del  cittadino romano, come le virtù guerriere, ed esaltasse le grandi gesta dei valorosi condottieri.
Rifacendosi ai modelli omerici fuse, così, storia e leggenda, narrando di Anchise e di Enea, del viaggio di Enea, dell’incontro con Didone e della sua rinuncia a lei (gesto ancora più eroico considerando la grandezza della donna a cui aveva dovuto rinunciare, addirittura una regina), che serviva proprio a fissare l’ineluttabile inimicizia storica fra Roma e Cartagine, terminata, poi, con lo scontro armato e con la vittoria romana.
S’impose, così, la Didone donna, che metteva in pericolo la futura fondazione di Roma,  e agli occhi dei Romani importanza enorme assunse la storia d’amore finita in dramma, perché era proprio con l’abbandono di Enea che cominciava la vittoria sui Cartaginesi, anche se, probabilmente, Virgilio non pensava allo scontro fra le due potenze, ma intendeva sottolineare l’amore fra due personaggi mitici fermato da una volontà superiore all’uomo e agli stessi dei: il  Fato.
Creatura poetica originale, che riassume in sé tutte le grandi eroine classiche, che non teme il paragone con la Medea di Apollonio Rodio né con la Medea di Euripide, che pure Virgilio ebbe ben presenti, Didone è personaggio complesso e altamente drammatico: è maestosa quando dirige la costruzione della nuova città, pietosa quando accoglie gli sventurati naufraghi troiani e ne ascolta le dolorose vicende, appassionatamente donna nell’amore, inteso come dedizione assoluta, ed anche quando, resasi conto dell’inganno della partenza di Enea, che le brucia più della partenza stessa, lo accusa di perfidia con toni che passano dalla supplica alla furia allo sdegno alla maledizione. Didone è dignitosamente regina quando, in considerazioni politiche, ricorda l’odio pericoloso dei tiranni e dei Tiri, suscitato proprio a causa di Enea; quando è ferma nei suoi propositi di suicidio; quando, non tollerando più la vista di colui che ha infranto il patto d’amore, tronca tempestosamente il colloquio, ed anche dopo, quando, nell’oltretomba non gli rivolge nemmeno uno sguardo.
Di fronte a questa figura femminile così palpitante, di fronte al dramma che vive, Enea, eroe pensoso, anche se costretto a lanciarsi nella mischia, assoggettato in tutta la vicenda al volere superiore, al quale sacrifica sentimenti e volontà personale (certo, perché consapevole dell’alta missione di cui è investito e della responsabilità che ha verso il suo popolo, costretto a scappare dalla città in fiamme, privato della moglie amatissima, in ricerca di una nuova patria che continuamente gli sfugge) appare poeticamente inferiore ma, nel gioco delle parti, proprio questo suo atteggiamento pone maggiormente in risalto la figura di Didone.
In fondo, se Enea abbandona Didone è perché così vuole il Fato, la sua volontà umana non può che sottostarvi, dunque è l’inevitabile destino che uccide l’amore e che separa per sempre gli sfortunati amanti.
Eppure Enea e Didone si rivedranno, o meglio Enea rivedrà Didone quando, nel VI canto dell’Eneide, accompagnato dalla Sibilla Cumana, ci sarà la catabasi nel regno tenebroso dell’Ade: qui, nei Campi del Pianto, dove giacciono le anime dei suicidi per amore, incontrerà  inaspettatamente Didone. Enea la riconoscera subito, le si avvicinerà e,  piangendo, le rivolgerà  parole affettuose, cercherà di giustificare il suo abbandono in nome della sottomissione agli ordini superiori degli dei e degli uomini, quelli del Fato, le giurerà che a malincuore partì e che mai avrebbe creduto di poterne causare la morte, ma Didone, torva, muta, sebbene lui le parlerà con “dolce amore” (dulcique adfatus amorest),  non perdonerà nemmeno dopo la morte perché non si perdona un’offesa d’amore, e lui la offese mortalmente tradendo il patto fra loro; non gli risponderà, non gli rivolgerà nemmeno uno sguardo e, sdegnosa e implacabile, si allontanerà, andando a raggiungere l’ombra di Sicheo, il suo primo sposo, al quale si sarà ricongiunta nel regno dei morti.

Illa solo fixos oculos aversa tenebat,

nec magis incepto voltum sermone movetur,

quam si dura silex aut stet Marpesia cautes.

Tandem corripuit sese atque inimica refugit

In nemus umbriferum, coniunx ubi pristinus illi

Respondet curis aequatque Sychaeus amorem.

 

Quella, rivolta di spalle, gli occhi  teneva fissi per terra

né il volto si mosse a quell’iniziato discorso,

ma dura fu come pietra o come roccia Marpesia,

infine s’involò e nemica disparve

nel bosco ombroso dove il suo primo marito,

Sicheo, condivide gli affanni e ricambia l’amore.

(Virgilio, Eneide, VI 469-474).

 

In epoca romana di Didone svanì, dunque, l’immagine di regina e s’impose quella di donna, e fu Ovidio ad esaltarne l’aspetto sentimentale, languido e sospiroso, nella VII epistola della sua opera Heroides, epistolario d’amore, comprendente quindici lettere scritte da eroine del mito ai loro amanti, e sei costituite da tre coppie, comprendenti tre lettere di eroi alle donne amate, con le risposte di queste ultime.
Ovidio, infatti, in  estremizzazione dei dettami della poetica neoterica, che prediligeva  le tematiche amorose, umanizzò il mito, perciò lo sfondo dell’antichità gli servì solo per incastonare in un’aura distaccata e fiabesca personaggi comuni dei quali studiarne i moti del cuore, essendo interessato non alla dimensione tragica, ma alle emozioni più intime, e proprio la scelta dell’epistola poetica gli fornì il pretesto per intessere un monologo patetico in cui l’eroina di turno potesse dare sfogo ai sentimenti e alle recriminazioni nei confronti dell’amante dal quale era stata abbandonata o tradita, piangendo e lamentandosi, imprecando e maledicendo.
Nella VII lettera delle Heroides Ovidio non intese narrare la passione estrema, come aveva fatto Virgilio, ma intonare il canto altissimo dell’amore, che offre felicità e tormento, speranza e disperazione, che non dà certezze e che, se ostacolato o tradito, diviene abbandono al destino crudele, e le parole di Didone, nell’Eneide sfogo impetuoso da inserire nella complessiva  narrazione epica del poema, per Ovidio, non interessato al Fato come causa dell’abbandono di Enea, divengono stanca confessione dell’amore tradito.
Didone, colta in tutte le manifestazioni femminili del sentimento, nella lettera di Ovidio è supplice; adoperando tutti gli argomenti possibili che una donna disperata, abbandonata senza colpa,  possa usare per cercare di trattenere a sé l’uomo che ama, pur di non perderlo, arrivando anche ad umiliarsi  proponendo ad Enea di rinunciare alle nozze,  l’intero monologo, nonostante esordisca  affermando il contrario,  è volto a convincere e a persuadere: 8

Nec quia te nostra sperem prece posse moveri, alloquor…

E non mi rivolgo a te fiduciosa di poterti commuovere con la mia supplica…

(Ovidio, Didone a Enea, VII 5).

Ovidio, dimentico della regina, si sofferma esclusivamente sulle reazioni della donna (ritratta in lacrime, in preda ai ricordi, al rimpianto, alla nostalgia), che non riesce ad odiare il perfidus, nonostante ne abbia tutti i motivi, ma  che continua ad amare:

Non tamen Aeneam, quamvis male cogitat, odi,

sed queror infidum quaestaque peius amo.

         

Tuttavia non odio Enea, sebbene trami la mia sventura,

ma lamento la sua slealtà e, pur lamentandomi, di più io lo amo .

(Virgilio, Eneide, VII 29-30 ).         

 

La Didone ovidiana si offre anche razionale ed  abile calcolatrice, ricorrendo a tutti gli argomenti più convincenti pur di non perdere Enea, anche ipotizzando una presunta gravidanza della quale, invece, la Didone virgiliana si rammaricava.
Così in Virgilio:

 

Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset

ante fugam sboles, si quis mihi  parvolus aula

luderet Aeneas, qui te tamen ore referret

non equidem omnino capta ac deserta viderer.

 

Se almeno avessi concepito di  te  un figlio

prima della tua fuga, se in questo palazzo

giocasse un piccolo Enea che pure ti rassomigliasse,

di certo non mi parrebbe d’essere stata del tutto ingannata e lasciata.

(Virgilio, Eneide, IV 327-330).

 

Così in Ovidio:

Forsitan et gravidam Didon, scelerate, relinquas

pasque tui lateat corpore clausa meo.

Accedet fatis matris miserabilis infans

et nondum nati funeris auctor eris...

 

Sciagurato, forse tu abbandoni Didone anche incinta

e una parte di te racchiusa e celata è nel mio ventre.

Condividerà il destino della madre la sventurata creatura

e tu sarai responsabile della morte di chi ancora non è nato…

(Ovidio, Didone a Enea, VII 135-138).

 

Didone infine spera che Enea torni ad amarla o, almeno (e qui Ovidio intende l’amore alla maniera elegiaca, come cura), che si lasci da lei amare:

Parce, Venus, nurui durumque amplectere fratrem

frater Amor; castris militet ille tuis

Aut ego quem coepi, neque enim dedignor, amare

materiam curae praebeat ille meae.

 

Risparmia, Venere, la tua nuora, e il tuo crudele fratello,

tu, fratello Amore, abbraccia; che egli militi nelle tue schiere,

o almeno, giacché cominciai io ad amarlo, e di ciò non mi vergogno,

fa’ che almeno egli fornisca materia alla mia passione.

(Ovidio, Didone a Enea, VII 33-34).

 

L’epistola VII, così persuasiva, ad un’attenta lettura proprio non si rivela quella di una donna in procinto di suicidarsi, nonostante non manchino le immagini di morte, come quella iniziale del cigno e quella finale di Didone che scrive con in grembo la spada, dono di Enea, con la quale si toglierà la vita:

Sic ubi fata vocant, udis abiectus in herbis

ad vada Maeandri concinit albus olor.

 

Così quando il destino  chiama, mentre langue sull’umida erba,

presso gli acquitrini del Meandro, il bianco cigno canta.

 

(Ovidio, Didone a Enea, VII 3).

 

Adspicias utinam quae sit scribentis imago;

scribimus, et gremio Troicus ensis adest;

serque genas lacrimae strictum labuntur in ensem,

qui iam pro lacrimis sanguine tinctus erit.

 

Oh, se tu vedessi l’immagine di colei che chi ti scrive!

Scrivo e in grembo tengo la spada troiana;

lungo le guance le lacrime scivolano giù sulla spada sguainata,

che fra poco sarà bagnata non di lacrime, ma di sangue.

(Ovidio, Didone a Enea, VII 185-186).

 

Persino le maledizioni feroci invocate nell’Eneide su Enea e sui suoi discendenti in Ovidio si addolciscono e divengono timori:

I, sequere Italiam ventis, pete regna per undas;

spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,

supplicia hausurum scopulis et nomine Dido

saepe vocaturum…

 

vattene, cerca pure l’Italia a forza di vento, cercati il regno fra le onde,

ma spero che in mezzo al mare, se gli dei giusti lo possono,

fra gli scogli sconterai la pena, e allora sì, che spesso

invocherai  il nome di Didone!

(Virgilio, Eneide, IV 381-383).

 

Perdita ne perdam, timeo, noceamve nocenti

neu bibat aequoreas naufragus hostis aquas.

 

Rovinata, temo di mandare in rovina, o di nuocere a chi mi nuoce

o che il mio nemico, naufragando, le acque del mare beva .

(Ovidio, Didone a Enea, VII  61-62).

 

Ovidio lascia che anche gli ultimi pensieri di Didone siano rivolti all’uomo amato:

 

Praebuit Aeneas et causam morti set ensem;

ipsa sua Dido concidit usa manu.

 

Il motivo della morte e la spada fornì Enea;

con la sua stessa mano si tolse la vita Didone.

(Ovidio, Didone a Enea, VII 197-198).

 

Poeta elegiaco, che proponeva una poesia intima e soggettiva, indifferente agli sforzi di Augusto di risanamento morale e civile dello Stato e della società romana, ed opposta all’impegno poetico di Virgilio, Ovidio adattò all’elegia un personaggio dell’epica, premendogli rappresentare non la dimensione pubblica ma quella privata, non l’eroica regina, la “virago”, ma la donna nel quotidiano (è, infatti, la donna che scrive il suo ultimo disperato messaggio d’amore, la lettera, mai l’avrebbe scritto la regina), colta nella sua femminilità fragile e dolente, in dipendenza affettiva da colui al quale è relazionata la sua stessa identità: l’uomo.
E’ per questo che Didone, relicta, priva di ogni dignità regale, piange e supplica, implora e si dispera, invoca e scongiura, anche se abbandonata,  tradita, non potendo essere altro per lei Enea, pur nel contrasto dei sentimenti, che oggetto d’amore, continuando ad importarle sempre e solo di lui; ed anche il rimpianto, per il pudor a cui è venuta meno, si lega alla perdita di Enea e non all’intrinseco suo valore e, ben più grave ai suoi occhi di donna, permane il tradimento d’amore dell’uomo verso la donna, piuttosto che quello verso la comunità, specchio della mentalità ovidiana che anteponeva la sfera privata a quella pubblica.
Come a tutte le eroine di Ovidio anche a Didone è estranea la lussuria, nonostante abbia consumato nella fisicità l’amore conserva sempre una sua purezza; diluendo la contrapposizione fra castità e desiderio amoroso anche in questo punto  Ovidio si differenziò da Virgilio.
A Virgilio interessava la narrazione epica, perciò elaborare la storia d’amore, impetuosa ed estrema, fra due personaggi mitici, finita poi nell’odio, serviva a giustificare che la grande storia di Roma era iniziata con l’inimicizia e la vittoria sui Cartaginesi; premeva, invece, ad Ovidio, poeta abituato a scrutare nell’animo umano, soprattutto in quello degli innamorati (tenerorum lusorum amorum si definì nella giovinezza, cfr. Tristia. 3.3.73; 4. 10 .1), rappresentare nelle Heroides, attraverso personaggi famosi del mondo mitologico ed eroico, figure contemporanee, parlare dell’amore che travolge l’animo femminile e che non ha limiti di tempo perché è sentimento universale ed eterno, e forse è per questo che continuiamo a ricordare ancora oggi soprattutto l’immagine della donna, non della regina, Didone.
Comunque, in entrambe le versioni, sia in quella virgiliana che in quella ovidiana, di Didone, figura estremamente femminile, colpisce anche l’elemento “maschile” già rilevato da Christine de Pizan allorché la definì “virago”: la forza.
Ed è proprio la forza (di carattere, che le permette di lottare fino alla fine, piegandosi solo quando vano risulta ogni tentativo di contrastare il volere del Fato; dell’amore, che la spinge a tentare di tutto pur di non perdere l’uomo che ama, poiché consapevole di non poter vivere con lui ma nemmeno senza di lui; del tentativo estremo di convincimento, la lettera, e della coraggiosa risoluzione finale, la scelta del suicidio e in forma così brutale; dell’orgoglio, che le consente, nell’aldilà, d’ignorare e di lasciare senza perdono l’uomo che l’ha tradita, Enea, che per altri valori ha sacrificato il valore supremo, l’amore) che, unendosi alla femminilità, ricompone in una le due anime  di Didone: quella di donna e quella di regina.

Francesca Santucci

1) Quella di Busenello è una Didone “ancorata all’ambiente veneziano del primo Seicento, libertino e gaudente”, B. Brizi, in P. Bono- M. V. Tessitore, Il mito di Didone, Bruno Mondatori, Milano 1998, p. 372.

2) P. Bono- M. V Tessitore, op. cit., p. 9.

3) Ch.de Pizan, op. cit., a cura di P. Caraffi. Edizione di E. J. Richards , Luni Editrice, Trento,  19982, p. 211.

4) P. Bono- M. V Tessitore, op. cit., p. 10.

5. Iarba nell’Eneide è detto Gaetulus, che significa Africano, in realtà era il re dei Numidi,  P.Todde- L. Mosti,  “Best seller di Roma antica”, editori Laterza, Roma- Bari 1988 p. 373.

6. Il termine pudor in latino ha una risonanza molto più ampia e complessa rispetto al suo corrispettivo italiano “pudore”. Pudor infatti indica non tanto “ritegno”, “riserbo”, “ritrosia” nell’ambito sessuale (per questo si veda il termine pudicitia), quanto il senso della dignità e dell’onore che impediscono all’uomo di compiere gesti di cui dovrebbe vergognarsi (pudor deriva dalla stessa radice del verbo impersonale pudet). In questo senso il pudor non interessa soltanto le fanciulle ma tutti gli uomini, e non riguarda solo la sfera sessuale ma ogni aspetto del comportamento: era ad esempio il pudor che imponeva al soldato di soffocare la paura e di non abbandonare il suo posto in battaglia. Tale sentimento di dignità verso se stessi e verso gli altri venne anche personificato in una divinità oggetto di culto, che si chiamava Pudor, secondo l’uso tipicamente romano di divinizzare concetti astratti, cfr N. Flocchini- P. Guidotti Bacci, “Il nuovo libro degli autori”, Bompiani, Milano 1996, pag. 613.

7) Cfr. P. Todde- L. Mosti, op. cit . ,  p. 371.

8) “Questa lettera non è in nessun modo l’annuncio di un suicidio: è, invece, in ogni suo particolare, in ogni significativa declinazione e revisione del modello virgiliano, un tentativo di riconquistare Enea”, A. Barchiesi, Narratività e convenzione nelle “Heroides”, in Ovidio, Eroidi, Garzanti, Milano 1996, p. 89.