Furor fit laesa saepium patientia.1
La pazienza spesso provocata diventa ira furibonda.
Praticamente tutto
il quartiere era in apprensione per le condizioni di salute di
Pasquale Da Pozzo, colpito in primavera da un leggero ictus che lo
manteneva in uno stato di sospensione tra la confusione mentale
più totale e qualche raro momento di lucidità, senza tuttavia
intaccare né l’appetito del vecchio, che rimaneva buono, né la
forte antipatia che aveva sempre nutrito per il genero e che,
anche in quelle condizioni, non mancava di lasciar trapelare.
Pasquale Da Pozzo era sempre stato buono, ma non fesso, e aveva
capito subito che quel notaio squallido e anonimo, eternamente
sudato sia d’inverno che d’estate, con le mani bianche e mollicce,
gli spessi occhialini da miope, lo sguardo finto ingenuo di chi
vuole fare il furbo credendo di potersi impunemente servire degli
altri, non aveva sposato sua figlia per amore, ma per la cospicua
eredità che le sarebbe toccata dopo la sua morte.
I Da Pozzo erano infatti di nobili natali, la loro famiglia aveva
avuto origine in Toscana nientedimeno che da un ramo collaterale
degli Alighieri, nell’alto medioevo, e l’etimologia del cognome si
faceva risalire all’eroico gesto del cavaliere Baldo, lontano
antenato, che aveva compiuto un burrascoso salvataggio di una
bambina caduta in un pozzo.
C’era, però, qualche incredulo che metteva in dubbio questa
spiegazione perché non capiva come mai un nobile non abitasse in
un castello, o quantomeno in luogo più signorile della popolare
via Arenaccia, e allora si ironizzava che sicuramente la bambina
doveva essere caduta in qualche altro tipo di buca, meno profonda
e meno romantica. La verità è che una serie di investimenti
sbagliati avevano portato i Da Pozzo a scendere sempre più in
basso nella scala sociale, ma mai a toccare il fondo, e comunque
rimanevano dei benestanti, democratici, di buon cuore e, tutto
sommato, dei veri signori.
La moglie di Pasquale era morta di parto subito dopo la nascita
della figlia Eleonora, e l’uomo si era preso cura della bambina
con una devozione ed un amore totali. Probabilmente era convinto
che la ragazza non si sarebbe mai separata da lui ed invece, non
solo si era sposata ma con un individuo che non gli andava a
genio nemmeno un poco però, da vero signore di nobili natali, non
si era opposto al matrimonio, non aveva mai detto una parola fuori
posto al genero, tanto meno aveva manifestato i suoi reali
sentimenti alla figlia, solo lo sguardo perplesso che, di tanto
in tanto, rivolgeva al genero, aggrottando le
bianche sopracciglia, lisciandosi col pollice e l’indice il labbro
superiore, lo tradiva ma, appena si accorgeva di essere osservato,
si affrettava a ricomporre la maschera facciale ad un
atteggiamento di assoluta neutralità.
E poi, incautamente, un giorno aveva confidato ad un vicino,
che si era affrettato a far sapere ad un altro vicino, e questi a
sua volta ad un altro ancora, che cosa ne pensasse realmente del
marito della figlia, ma sempre molto signorilmente ed
educatamente, e la cosa era divenuta di pubblico dominio.
Da qualche giorno le sue condizioni di salute sembravano
peggiorate ed il medico faceva la spola tra l’ambulatorio e casa
Da Pozzo, segno evidente che il momento del trapasso era ormai
imminente.
Una piccola folla di familiari, amici e semplici conoscenti, si
dava continuamente il cambio intorno alla futura orfana, per
offrirle tutto il sostegno psicologico richiesto dalla delicata
circostanza, ed anche per darle un aiuto concreto nel caso che le
servisse qualcosa di materiale.
Eleonora apprezzava ma restava silenziosamente, ostinatamente e
dignitosamente (come si conveniva ad una ragazza di nobili
origini) chiusa nel suo dolore, seduta al capezzale dell’amato
padre che, ormai già da diverse settimane, non riconosceva più
nessuno.
***
Quel giorno, dalla
cucina attigua alla camera del moribondo, si levò un improvviso
brusio, un cicaleccio concitato di voci femminili che tacque solo
per fare posto ad un’unica voce, quella dell’intero vicinato che
all’unisono annunciava:
-Donna Eleono’, sta salendo vostro marito!-
Donna Eleonora alzò
gli occhi dal rosario che stringeva tra le dita, rivolse un
accorato sguardo al padre, sospirò e
poi, con un filo di voce, rispose:
-Sì, …tanto…- con un’indeterminazione ed un’indefinitezza nel tono
della voce che, per chi conosceva un poco i Da Pozzo,
erano illuminanti sul rapporto esistente tra suo padre e suo
marito, e sulla considerazione in cui era tenuto quest’ultimo dal
povero vecchio in pigiama e papalina.
Preceduto dal codazzo di vicini che si era passata la voce fino
alla camera del moribondo, Nicolino entrò lentamente, a fatica,
col passo strascicato, col suo vestito grigio topo, la cravatta
allentata, il viso grondante sudore continuamente asperso da un
largo fazzoletto bianco, una grossa borsa di pelle nera stretta
sotto un’ascella.
Si avvicinò al letto
e chiese genericamente ai presenti:
-Come sta? Capisce o non capisce. E’ in sé o è fuori di sé?-
Sua moglie scosse la testa, qualcuno scrollò le spalle, qualcun
altro asciugò una lacrima.
-Aspettate, mo’ ci penso io. Volete vedere che mi riconosce? –
asserì l’uomo sfoderando un ottimistico sorriso a trentadue denti.
-Sì, sì, prova…- sussurrò la moglie.
-Sì, sì, provate! - lo incoraggiarono i presenti sorridendo
rassicuranti e disponendosi meglio nella stanza per godere la
scena.
Nicolino si accomodò sul letto di fronte al marchese, puntò la
sinistra sul materasso per tenere l’equilibrio, con la destra si
slacciò la cravatta, asciugò ancora una volta il sudore che gli
scendeva a rivoli dalla fronte, ripose il fazzoletto nella tasca
della giacca e poi cominciò a chiamare:
- Papà? …Papà?…Marchese?…-
Pasquale Da Pozzo spalancò gli occhi e guardò fisso l’uomo che
ricambiò lo sguardo con un’identica espressione un poco ebete.
Allora Nicolino si schiarì la voce e, fissandolo, in tenera
cantilena chiese:
-Papà, guardatemi: mi riconoscete? Papà, papà, marchese, chi sono
io?-
Eleonora aveva il cuore alla gola e un tremito che le trapassava
tutto il corpo per l’agitazione, ed anche i presenti erano
partecipi del suo stato d’animo. Tutti, ma proprio tutti, erano in
sospensione per la risposta, e
non un suono, non un sibilo, non un respiro risuonavano nella
stanza.
L’uomo ripeté la domanda:
-Chi sono io?-
Il vecchio ebbe un sussulto, si riscosse come se solo
allora avesse messo a fuoco la situazione e parve perdere
l’espressione terrorizzata che poc’anzi aveva esibito all’apparire
del genero. Negli occhi gli balenò, per un istante, una luce
divertita, poi il volto s’incupì, ridivenne serio e sollevò un
poco la testa dal cuscino:
-Marchese?...Papà?…Parlate! Rispondete! Chi sono io?
Pressato dalla
domanda, incalzato dagli sguardi dei presenti in apprensione ma,
soprattutto, desideroso di liberarsi del macigno che lo opprimeva,
sempre sostenendo lo sguardo dell’interlocutore, con atteggiamento
di grande fierezza, come quel Farinata suo conterraneo che
aveva il mondo in gran dispetto, 2 finalmente
sbottò.
Senza esitazione,
con calore e decisione, in modo poco signorile, con un linguaggio
affatto elegante, per nulla consono ad un appartenente ad una
famiglia di nobili origini, che nemmeno lontanamente ricordava il
sacro idioma fiorentino parlato dai suoi antenati, essendo
decisamente colorito dialetto partenopeo che, in quella
circostanza, si rivelava essere il più adatto per l’espressione
dello stato d’animo che, da tempo, opprimeva il cuore del povero
vecchio, il marchese Da Pozzo finalmente esclamò:
- O frate d’o cazzo! -
Poi ripiombò sul cuscino e spirò!
Francesca Santucci
1) Chi sono io?
2) La Divina Commedia ( Inf. IX,
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