Accattivante e stimolante lettura questo saggio non
accademico ma neppure di agevole fruizione, scritto
con uno stile ricercato e linguisticamente ben
strutturato, ricco di numerosi e dotti riferimenti
letterari. E, per una studiosa pluriquarantennale di
Emily Brontë come me, una sorta di brain storming
che fa tornare alla mente contenuti culturali
“dimenticati” nella routine della quotidianità e delle
pubblicazioni ripetitive.
L’Introduzione è davvero stupefacente, viene colta
perfettamente l’essenza similare delle due autrici con
dovizia di esempi, evidenziandone al massimo i punti
di contatto. Qualche riserva riguarda la sproporzione
delle fonti e dei dati filologici, poiché per
l’americana si enumera ogni singolo particolare
riguardante la fama postuma, mentre per l’inglese si è
più parchi e si omette l’esistenza (sin dal 1997) di
una Sezione Italiana della Brontë Society, che è stata
molto attiva con incontri e seminari tenuti nelle
varie città d’Italia per una quindicina d’anni. La
referente di allora, prof.ssa Franca Gollini, da me
coadiuvata, organizzò eventi con eminenti studiosi (su
tutti l’australiana Christine Alexander, da me
invitata a Napoli nel convegno che vi tenni nel 2004).
Tuttora è attiva una pagina Facebook “La Sezione
Italiana della BS” da me curata nella quale si possono
trovare aggiornamenti, foto e approfondimenti.
Un’altra obiezione è l’assenza di riferimento ai
componimenti in francese di Emily Brontë, pur citati
nella bibliografia. Ricordo che li ho tradotti e
commentati nel 2002, considerandoli un’integrazione
importantissima del suo pensiero, alcuni come Le
Papillon e Le Chat illustrano in dettaglio
aspetti singolari e indispensabili del suo credo. A
mio parere vanno ricompresi nell’opera omnia di Emily,
per quanto ancor meno conosciuti delle poesie.
Mi trovo d’accordo sul “provincialismo elettivo” delle
due poetesse, che realizzarono la loro peculiare vena
creativa proprio perché originarie di ambienti di
provincia poco affollati, nei quali potevano
preservare la loro integrità mentale. Mi piace ed ho
evidenziato l’espressione riferita alla “mia” Emily, a
pag. 33, quando le viene attribuita una “passione
civica” che Dickinson non ha, e la notazione a pag. 38
in cui si dice che Brontë ignora del tutto
l’interlocutore maschile all’esterno della canonica e
non cerca insegnanti, a differenza dell’altra autrice.
Nel capitolo 3 avrei dato più rilievo alla figura
materna in casa Brontë, Maria Branwell, sulla quale ho
pubblicato un romanzo basato su fonti storiche (Maria
Branwell - La madre delle sorelle Brontë, Vintage,
2021, precedentemente La madre di Jane Eyre,
Neapolis Alma edizioni, 2013) in cui riportavo in
italiano le nove toccanti lettere scritte da Maria
all’allora fidanzato Patrick.
La personalità di quest’ultimo è stata molto
riscattata nelle biografie più recenti. Sarei infatti
stata con lui più indulgente, ferme restando le sue
caratteristiche di soggetto collerico ed eccentrico.
Ho invece apprezzato molto l’espressione “incubatrice
psicologica”, riferita alla precocità e alla simbiosi
creativa infantile dei Brontë, e soprattutto come è
stato esposto il declino di Branwell, il “tarlo”
invisibile che ha roso la vita della famiglia. Oggi
stranamente da parte della critica si tende a
giustificare lui e le sue azioni e manie, ma la verità
è che è stato una rovina per sé e per gli altri ed
effettivamente il pietismo mi sembra assolutamente
inutile.
Uno spunto di discussione concerne l’assenza della
madre. È vero che Emily, sorelle e fratello crebbero
senza mamma e che nelle loro opere (tranne che in
quelle di Anne e nel romanzo Shirley), non
compare mai tale figura; tuttavia, volendo considerare
i componimenti in francese scritti a Bruxelles, quello
intitolato semplicemente Lettre (da me tradotto
per la prima volta in italiano in Componimenti di
Bruxelles, Ripostes, 2016) denota un particolare
senso di assenza e di nostalgia per una madre mai
conosciuta se non nella primissima infanzia. Il fatto
stesso che Emily le scriva una lettera (e non abbiamo
il corrispondente devoir di Charlotte, come
negli altri casi), è altamente significativo.
Nel cap. 4 trovo interessante il discorso sulla
personalità autoreferenziale o auto-centrata, e
soprattutto quanto si dice a pag. 72 a proposito della
filosofia di Plotino (che ho recuperato mentalmente
dopo decenni). Ho sottolineato diverse asserzioni, fra
le quali, a pag. 73: “la nudità eterea di Brontë e il
trovare riposo non desiderando niente (...) sono
assunti dell’antichità filosofica e teologica”. L’àncora
come simbolo per Emily Jane è idea strategica. A
proposito della religiosità, mi sovviene uno scritto
dello spagnolo Oscar Arnedillo, divenuto poi un
articolo di Brontё Studies 2002 in cui Emily Jane
veniva confrontata per alcuni aspetti a Santa Teresa
d’Avila con l’ipotesi che a Bruxelles ne avesse letto
gli scritti.
Sono totalmente d’accordo con quanto viene detto nel
cap. 5 sull’attaccamento morboso delle due poetesse ai
loro luoghi, le case, e la riluttanza ad allontanarsi
dagli spazi noti. Anche qui trovo notevole questa
affermazione: “La coartazione favorisce la dilatazione
spirituale e la concentrazione emotiva”.
Nel capitolo 6 si dà poco risalto al ruolo dei fiori
per Emily Jane, nonostante l’erica e il giacinto
occupino un posto di rilievo nella sua poetica. Nelle
mie ricerche qualche anno fa mi sono soffermata sui
fiori color fucsia che crescono in brughiera,
sicuramente da lei amati e ben conosciuti, annoverando
fra essi anche la Digitale rossa (foxglove),
l’erba di Sant’Antonio o garofanino maggiore (rosebay
willowherb) e il cardo. Anche gli uccelli e le
loro varie specie avrebbero meritato una menzione
ulteriore. Il loro significato in Wuthering Heights
ha attirato l’attenzione di Emily Wallace Robertson in
un articolo riportato in Brontë Studies 2016.
Nel capitolo 7 si arriva al cuore del discorso
evidenziando le somiglianze tra le due autrici e
soprattutto perché esse siano considerate “strane”
dalla maggioranza. Di grande interesse il concetto di
secessione dalla normalità e di intenzionale
sottrazione all’osservazione altrui. L’autore spiega
molto bene in cosa consiste la loro modernità:
l’individualità solitaria, la coscienza di sé e
l’indipendenza.
Il discorso sul genio, che senza alcun dubbio
attribuisco a Emily Jane con tutte le caratteristiche
elencate nel saggio, ha aperto orizzonti in me sepolti
da decenni in quanto da giovane mi dilettavo a leggere
libri di psicoanalisi e psicologia. Mi è bastato
andare nella mia libreria e recuperare il testo di
Freud Psicoanalisi del genio per trovare e
rileggere l’indovinatissimo articolo Il poeta e la
fantasia del 1908 che identifica in maniera
appropriata alcune delle caratteristiche più evidenti
di Emily Jane (significato del gioco protratto
nell’età adulta, il sogno ad occhi aperti, daydream
tanto presente nelle poesie).
Il capitolo 8 sulla tematica dell’amore è intriso di
psicologia e psicoanalisi, va riletto più volte perché
la terminologia specifica rende difficile enucleare
alcuni concetti. Nel successivo capitolo appare forse
eccessivo attribuire a Emily Jane la convinzione di
essere invulnerabile nell’ultima fase; inoltre sarebbe
stato utile descrivere per esteso il suo periodo
terminale per controbilanciare l’accento sulla
malattia di Dickinson. Purtroppo le biografie italiane
sulla Brontё sono datate, manchevoli e semplicistiche.
Quelle inglesi, soprattutto la monografia di Winifred
Gèrin e di Edward Chitham, con riferimento all’opera
di Juliet Barker sull’intera famiglia, avrebbero
fornito informazioni più complete.
Nel capitolo 10 trovo ben delineate le parole chiave:
religione natura, amore, morte. Non condivido la
definizione derivata da altri autori di Cime
tempestose come “sinfonia lugubre ispirata a De
Sade e al gotico nero”, perché riduttiva della portata
del romanzo. È invece spiegata con precisione l’idea
di morte nelle poesie di Emily Brontё, anche se
Dickinson occupa la scena a suo svantaggio.
Nel capitolo 11 sarebbe valsa la pena di soffermarsi
sul rapporto tra le sorelle Brontё, specie sulla
simbiosi tra Emily e Anne, in parallelo a quello tra
Dickinson e la cognata descritto con attenzione. Nel
capitolo seguente si può dire che l’individualità di
Emily Jane sia sovrastata da quella di Emily
Elizabeth.
Nel capitolo 13 a pag. 203 si accenna alla teoria
diffusa negli ultimi anni sul lesbismo latente di
Charlotte (nei confronti di Ellen Nussey). C’è chi ne
ha preso spunto per un romanzo esagerando di gran
lunga la reale situazione (Letters to
Charlotte: the letters from
Ellen Nussey to Charlotte
Brontё, di Caeia March, 2010). A mio avviso si
tratta di una conclusione arbitraria, poiché in epoca
vittoriana era un atteggiamento normale tra ragazze,
che dormivano insieme per mancanza di spazio e
trascorrevano molto tempo in reciproca compagnia.
Singolare la definizione di Cime tempestose
come “lucida anatomia del cannibalismo
interpersonale”. L’analisi della sessualità delle due
autrici è ben calibrata.
Nel capitolo 14 compare un’attenta analisi del saggio
di Camille Paglia dedicato a Emily Brontë in Sexual
Personae. Mi sono procurata online il testo e ho
notato che la saggista fa ruotare la propria
interpretazione intorno al tema dell’incesto, per lei
un fatto assodato del romanzo. Quando io dodicenne
trovai nella biblioteca paterna Cime Tempestose
(nella traduzione di Rosina Binetti) ciò che mi
attrasse di più fu proprio questa ipotesi, ventilata
nella retrocopertina. Era una mania di quel momento
(anni ’70) e, memore di ciò e sempre con questo
dubbio, più avanti trovai l’articolo di Solomon a cui
si fa riferimento (addirittura lo trascrissi con la
macchina da scrivere per tenerlo fra le mie carte
Brontё, ora trasformatesi in una stanza a loro
dedicata) e ancora lo conservo. Devo dire però che a
tutt’oggi questa teoria è alquanto superata e io
stessa non la condivido, perché è poco credibile che
Heathcliff sia un figlio illegittimo del vecchio
Earnshaw e il fatto che i due (Cathy ed Heathcliff)
siano cresciuti insieme come fratello e sorella esula
comunque dal legame di sangue.
Nel saggio della Paglia inoltre trovo opinabile
l’insistenza sulla “femmineità” di Heathcliff. Se
“Heathcliff è una donna travestita e non ha
consistenza virile né testicolare”, come mai riesce a
generare un figlio, per quanto femmineo e prodotto da
una tara seminale? Anche il riferimento alla biografia
di Emily della Moore del 1939, in linea con la teoria
enunciata, è questionabile trattandosi di un libro che
gli studiosi considerano poco attendibile. Mi tocca
personalmente il fatto che nella trattazione della
Paglia (e anche nel libro di Morretta) si dica che c’è
“Shakespeare sullo sfondo”, avendo io realizzato agli
inizi degli anni Ottanta un’originale tesi di laurea
dal titolo “Influssi shakespeareani in Wuthering
Heights”. Allora evidenziai molti aspetti comuni a
King Lear, ad Hamlet, The Taming of
the Shrew ed altri suoi drammi, ma non pensai
onestamente ad Anthony and Cleopatra.
Trovo degna di nota l’affermazione di Morretta secondo
cui Cathy ed Heathcliff siano “bambini immortalati”,
un punto di vista proposto nel 2011 dalla regista
Andrea Arnold nel suo film Wuthering Heights,
laddove per tre quarti della durata si dà spazio alla
loro infanzia-adolescenza intesa come centro
propulsore del romanzo, oltre a considerare Heathcliff
“di colore”. Nel 2018, per il bicentenario di Emily, è
stata la tematica trasversale di tutti gli incontri e
i convegni dedicati a lei. Mi piace anche la deduzione
secondo cui in Wuthering Heights le donne siano
“occasione di guerra” come Elena di Troia e tramite di
tensione tra i maschi.
Il capitolo 15, interamente dedicato alla biografia di
Emily Jane, avrebbe potuto figurare prima per
facilitare chi non ne conosce la vita. A pag. 233 è
presente una versione scorretta di una frase di una
lettera, a causa di testi italiani non accurati: “Anne
ed io avremmo dovuto vendemmiare l’uva nera” è infatti
una maldestra traduzione di “Anne and I should have
picked the black currants if it had been fine and
sunshiny”, che invece corrisponde alla resa
italiana “Anne e io avremmo dovuto raccogliere il
ribes nero” (sono i piccoli frutti che si trovavano
nel loro giardino, può andare bene anche uva
sultanina, ma non il verbo vendemmiare!).
Riguardo a To Walk Invisible, faccio notare che
si tratta di un biopic della famiglia Brontё
del 2016, ben realizzato e veridico, che molto
successo ha riscosso in Gran Bretagna. In tale opera
viene presa in considerazione la loro vita sino al
momento in cui Charlotte e Anne si recano a Londra da
Smith per farsi riconoscere, una scena superlativa.
Per quanto concerne il rapporto tra Charlotte ed
Elizabeth Gaskell, mi preme sottolineare che fu una
vera amicizia basata su una simpatia intellettuale.
Oltretutto all’epoca della loro conoscenza Charlotte
era più famosa della Gaskell, che aveva pubblicato
solo Mary Barton, l’ampia notorietà le venne
solo in seguito alla collaborazione di racconti
pubblicati da Dickens sul proprio periodico. Sostengo
ciò in quanto sono reduce da una lettura parallela di
due accreditate biografie della Gaskell, quella della
Uglow e quella della Gérin. A distanza di quasi due
secoli possiamo ben dire che è la Gaskell ad aver
costruito il suo futuro letterario attraverso
Charlotte, grazie alla biografia che scrisse in
seguito su di lei.
Il capitolo 16 riguarda la progressiva diffusione e
affermazione delle donne scrittrici. Molto giusto
l’assunto secondo cui le due Emily scrivono perché
scrivere è arrivare in cima all’esistenza, un modo per
rendere più profondo ciò che si vive e per proiettarsi
nel tempo a venire. Nel successivo capitolo si
ribadisce che Dickinson e Brontё “dicono con la penna”
per isolarsi. Notevoli questi concetti: 1) In loro c’è
assenza di invenzione casuale, anche se per Brontё
fantasticare è termine esplosivo. 2) Brontё ha caro il
regno interiore e ciò funge da auto-terapia. Il dio
delle visioni è pericoloso perché può sostituirsi al
giudizio, per cui fantasticare può diventare
un’ossessione. 3) È doloroso pensare all’umanità come
vuota e servile. L’unico antidoto alla violenza
connaturata alla specie è la cultura, in particolare
nella sublimazione attuabile con la scrittura
percorrendo le vie della filosofia e
dell’immaginazione.
Il capitolo 18 è molto importante perché stabilisce le
somiglianze fra le due figure nella vita interiore in
quanto solitarie, una condizione che le fa pervenire
ad una dimensione vasta e irraggiungibile. Ambedue
vivono per scrivere e scrivono per vivere, ma hanno
bisogno di lentezza (stasi) per giungere a maturazione
(acuta osservazione).
Nel Post scriptum si spiega ottimamente perché le due
autrici sono immortali:
1) Sanno vedere l’assoluto fuori dalla quotidianità
2) Sono “sibille in pectore”, trasportando sulla
pagina ciò che hanno sperimentato
3) La loro latenza è strategia vincente per
l’immortalità
4) Astrarre dal privato rende i contenuti validi per
tutti.
Infine, un limite per il lettore esperto o per lo
studioso è l’enumerazione nella Bibliografia di testi
solo italiani. Un peccato veniale a fronte di una
dedizione ammirevole. Le due Emily sentitamente
ringraziano.