Maddalena De Leo

 

    Emily twice


               Veleggiando con Brontë e Dickinson


                  nell’opera Tra di noi l’oceano di Mattia Morretta


                      A cura di Maddalena De Leo, referente Italiana della Brontë Society


 

 

 

 

 

Accattivante e stimolante lettura questo saggio non accademico ma neppure di agevole fruizione, scritto con uno stile ricercato e linguisticamente ben strutturato, ricco di numerosi e dotti riferimenti letterari. E, per una studiosa pluriquarantennale di Emily Brontë come me, una sorta di brain storming che fa tornare alla mente contenuti culturali “dimenticati” nella routine della quotidianità e delle pubblicazioni ripetitive.

L’Introduzione è davvero stupefacente, viene colta perfettamente l’essenza similare delle due autrici con dovizia di esempi, evidenziandone al massimo i punti di contatto. Qualche riserva riguarda la sproporzione delle fonti e dei dati filologici, poiché per l’americana si enumera ogni singolo particolare riguardante la fama postuma, mentre per l’inglese si è più parchi e si omette l’esistenza (sin dal 1997) di una Sezione Italiana della Brontë Society, che è stata molto attiva con incontri e seminari tenuti nelle varie città d’Italia per una quindicina d’anni. La referente di allora, prof.ssa Franca Gollini, da me coadiuvata, organizzò eventi con eminenti studiosi (su tutti l’australiana Christine Alexander, da me invitata a Napoli nel convegno che vi tenni nel 2004). Tuttora è attiva una pagina Facebook “La Sezione Italiana della BS” da me curata nella quale si possono trovare aggiornamenti, foto e approfondimenti.

Un’altra obiezione è l’assenza di riferimento ai componimenti in francese di Emily Brontë, pur citati nella bibliografia. Ricordo che li ho tradotti e commentati nel 2002, considerandoli un’integrazione importantissima del suo pensiero, alcuni come Le Papillon e Le Chat illustrano in dettaglio aspetti singolari e indispensabili del suo credo. A mio parere vanno ricompresi nell’opera omnia di Emily, per quanto ancor meno conosciuti delle poesie.

Mi trovo d’accordo sul “provincialismo elettivo” delle due poetesse, che realizzarono la loro peculiare vena creativa proprio perché originarie di ambienti di provincia poco affollati, nei quali potevano preservare la loro integrità mentale. Mi piace ed ho evidenziato l’espressione riferita alla “mia” Emily, a pag. 33, quando le viene attribuita una “passione civica” che Dickinson non ha, e la notazione a pag. 38 in cui si dice che Brontë ignora del tutto l’interlocutore maschile all’esterno della canonica e non cerca insegnanti, a differenza dell’altra autrice.

Nel capitolo 3 avrei dato più rilievo alla figura materna in casa Brontë, Maria Branwell, sulla quale ho pubblicato un romanzo basato su fonti storiche (Maria Branwell - La madre delle sorelle Brontë, Vintage, 2021, precedentemente La madre di Jane Eyre, Neapolis Alma edizioni, 2013) in cui riportavo in italiano le nove toccanti lettere scritte da Maria all’allora fidanzato Patrick.

La personalità di quest’ultimo è stata molto riscattata nelle biografie più recenti. Sarei infatti stata con lui più indulgente, ferme restando le sue caratteristiche di soggetto collerico ed eccentrico. Ho invece apprezzato molto l’espressione “incubatrice psicologica”, riferita alla precocità e alla simbiosi creativa infantile dei Brontë, e soprattutto come è stato esposto il declino di Branwell, il “tarlo” invisibile che ha roso la vita della famiglia. Oggi stranamente da parte della critica si tende a giustificare lui e le sue azioni e manie, ma la verità è che è stato una rovina per sé e per gli altri ed effettivamente il pietismo mi sembra assolutamente inutile.

Uno spunto di discussione concerne l’assenza della madre. È vero che Emily, sorelle e fratello crebbero senza mamma e che nelle loro opere (tranne che in quelle di Anne e nel romanzo Shirley), non compare mai tale figura; tuttavia, volendo considerare i componimenti in francese scritti a Bruxelles, quello intitolato semplicemente Lettre (da me tradotto per la prima volta in italiano in Componimenti di Bruxelles, Ripostes, 2016) denota un particolare senso di assenza e di nostalgia per una madre mai conosciuta se non nella primissima infanzia. Il fatto stesso che Emily le scriva una lettera (e non abbiamo il corrispondente devoir di Charlotte, come negli altri casi), è altamente significativo.

Nel cap. 4 trovo interessante il discorso sulla personalità autoreferenziale o auto-centrata, e soprattutto quanto si dice a pag. 72 a proposito della filosofia di Plotino (che ho recuperato mentalmente dopo decenni). Ho sottolineato diverse asserzioni, fra le quali, a pag. 73: “la nudità eterea di Brontë e il trovare riposo non desiderando niente (...) sono assunti dell’antichità filosofica e teologica”. L’àncora come simbolo per Emily Jane è idea strategica. A proposito della religiosità, mi sovviene uno scritto dello spagnolo Oscar Arnedillo, divenuto poi un articolo di Brontё Studies 2002 in cui Emily Jane veniva confrontata per alcuni aspetti a Santa Teresa d’Avila con l’ipotesi che a Bruxelles ne avesse letto gli scritti.

Sono totalmente d’accordo con quanto viene detto nel cap. 5 sull’attaccamento morboso delle due poetesse ai loro luoghi, le case, e la riluttanza ad allontanarsi dagli spazi noti. Anche qui trovo notevole questa affermazione: “La coartazione favorisce la dilatazione spirituale e la concentrazione emotiva”.

Nel capitolo 6 si dà poco risalto al ruolo dei fiori per Emily Jane, nonostante l’erica e il giacinto occupino un posto di rilievo nella sua poetica. Nelle mie ricerche qualche anno fa mi sono soffermata sui fiori color fucsia che crescono in brughiera, sicuramente da lei amati e ben conosciuti, annoverando fra essi anche la Digitale rossa (foxglove), l’erba di Sant’Antonio o garofanino maggiore (rosebay willowherb) e il cardo. Anche gli uccelli e le loro varie specie avrebbero meritato una menzione ulteriore. Il loro significato in Wuthering Heights ha attirato l’attenzione di Emily Wallace Robertson in un articolo riportato in Brontë Studies 2016.

Nel capitolo 7 si arriva al cuore del discorso evidenziando le somiglianze tra le due autrici e soprattutto perché esse siano considerate “strane” dalla maggioranza. Di grande interesse il concetto di secessione dalla normalità e di intenzionale sottrazione all’osservazione altrui. L’autore spiega molto bene in cosa consiste la loro modernità: l’individualità solitaria, la coscienza di sé e l’indipendenza.

Il discorso sul genio, che senza alcun dubbio attribuisco a Emily Jane con tutte le caratteristiche elencate nel saggio, ha aperto orizzonti in me sepolti da decenni in quanto da giovane mi dilettavo a leggere libri di psicoanalisi e psicologia. Mi è bastato andare nella mia libreria e recuperare il testo di Freud Psicoanalisi del genio per trovare e rileggere l’indovinatissimo articolo Il poeta e la fantasia del 1908 che identifica in maniera appropriata alcune delle caratteristiche più evidenti di Emily Jane (significato del gioco protratto nell’età adulta, il sogno ad occhi aperti, daydream tanto presente nelle poesie).

Il capitolo 8 sulla tematica dell’amore è intriso di psicologia e psicoanalisi, va riletto più volte perché la terminologia specifica rende difficile enucleare alcuni concetti. Nel successivo capitolo appare forse eccessivo attribuire a Emily Jane la convinzione di essere invulnerabile nell’ultima fase; inoltre sarebbe stato utile descrivere per esteso il suo periodo terminale per controbilanciare l’accento sulla malattia di Dickinson. Purtroppo le biografie italiane sulla Brontё sono datate, manchevoli e semplicistiche. Quelle inglesi, soprattutto la monografia di Winifred Gèrin e di Edward Chitham, con riferimento all’opera di Juliet Barker sull’intera famiglia, avrebbero fornito informazioni più complete.

Nel capitolo 10 trovo ben delineate le parole chiave: religione natura, amore, morte. Non condivido la definizione derivata da altri autori di Cime tempestose come “sinfonia lugubre ispirata a De Sade e al gotico nero”, perché riduttiva della portata del romanzo. È invece spiegata con precisione l’idea di morte nelle poesie di Emily Brontё, anche se Dickinson occupa la scena a suo svantaggio.

Nel capitolo 11 sarebbe valsa la pena di soffermarsi sul rapporto tra le sorelle Brontё, specie sulla simbiosi tra Emily e Anne, in parallelo a quello tra Dickinson e la cognata descritto con attenzione. Nel capitolo seguente si può dire che l’individualità di Emily Jane sia sovrastata da quella di Emily Elizabeth.

Nel capitolo 13 a pag. 203 si accenna alla teoria diffusa negli ultimi anni sul lesbismo latente di Charlotte (nei confronti di Ellen Nussey). C’è chi ne ha preso spunto per un romanzo esagerando di gran lunga la reale situazione (Letters to Charlotte: the letters from Ellen Nussey to Charlotte Brontё, di Caeia March, 2010). A mio avviso si tratta di una conclusione arbitraria, poiché in epoca vittoriana era un atteggiamento normale tra ragazze, che dormivano insieme per mancanza di spazio e trascorrevano molto tempo in reciproca compagnia. Singolare la definizione di Cime tempestose come “lucida anatomia del cannibalismo interpersonale”. L’analisi della sessualità delle due autrici è ben calibrata.

Nel capitolo 14 compare un’attenta analisi del saggio di Camille Paglia dedicato a Emily Brontë in Sexual Personae. Mi sono procurata online il testo e ho notato che la saggista fa ruotare la propria interpretazione intorno al tema dell’incesto, per lei un fatto assodato del romanzo. Quando io dodicenne trovai nella biblioteca paterna Cime Tempestose (nella traduzione di Rosina Binetti) ciò che mi attrasse di più fu proprio questa ipotesi, ventilata nella retrocopertina. Era una mania di quel momento (anni ’70) e, memore di ciò e sempre con questo dubbio, più avanti trovai l’articolo di Solomon a cui si fa riferimento (addirittura lo trascrissi con la macchina da scrivere per tenerlo fra le mie carte Brontё, ora trasformatesi in una stanza a loro dedicata) e ancora lo conservo. Devo dire però che a tutt’oggi questa teoria è alquanto superata e io stessa non la condivido, perché è poco credibile che Heathcliff sia un figlio illegittimo del vecchio Earnshaw e il fatto che i due (Cathy ed Heathcliff) siano cresciuti insieme come fratello e sorella esula comunque dal legame di sangue.

Nel saggio della Paglia inoltre trovo opinabile l’insistenza sulla “femmineità” di Heathcliff. Se “Heathcliff è una donna travestita e non ha consistenza virile né testicolare”, come mai riesce a generare un figlio, per quanto femmineo e prodotto da una tara seminale? Anche il riferimento alla biografia di Emily della Moore del 1939, in linea con la teoria enunciata, è questionabile trattandosi di un libro che gli studiosi considerano poco attendibile. Mi tocca personalmente il fatto che nella trattazione della Paglia (e anche nel libro di Morretta) si dica che c’è “Shakespeare sullo sfondo”, avendo io realizzato agli inizi degli anni Ottanta un’originale tesi di laurea dal titolo “Influssi shakespeareani in Wuthering Heights”. Allora evidenziai molti aspetti comuni a King Lear, ad Hamlet, The Taming of the Shrew ed altri suoi drammi, ma non pensai onestamente ad Anthony and Cleopatra.

Trovo degna di nota l’affermazione di Morretta secondo cui Cathy ed Heathcliff siano “bambini immortalati”, un punto di vista proposto nel 2011 dalla regista Andrea Arnold nel suo film Wuthering Heights, laddove per tre quarti della durata si dà spazio alla loro infanzia-adolescenza intesa come centro propulsore del romanzo, oltre a considerare Heathcliff “di colore”. Nel 2018, per il bicentenario di Emily, è stata la tematica trasversale di tutti gli incontri e i convegni dedicati a lei. Mi piace anche la deduzione secondo cui in Wuthering Heights le donne siano “occasione di guerra” come Elena di Troia e tramite di tensione tra i maschi.

Il capitolo 15, interamente dedicato alla biografia di Emily Jane, avrebbe potuto figurare prima per facilitare chi non ne conosce la vita. A pag. 233 è presente una versione scorretta di una frase di una lettera, a causa di testi italiani non accurati: “Anne ed io avremmo dovuto vendemmiare l’uva nera” è infatti una maldestra traduzione di “Anne and I should have picked the black currants if it had been fine and sunshiny”, che invece corrisponde alla resa italiana “Anne e io avremmo dovuto raccogliere il ribes nero” (sono i piccoli frutti che si trovavano nel loro giardino, può andare bene anche uva sultanina, ma non il verbo vendemmiare!).

Riguardo a To Walk Invisible, faccio notare che si tratta di un biopic della famiglia Brontё del 2016, ben realizzato e veridico, che molto successo ha riscosso in Gran Bretagna. In tale opera viene presa in considerazione la loro vita sino al momento in cui Charlotte e Anne si recano a Londra da Smith per farsi riconoscere, una scena superlativa.

Per quanto concerne il rapporto tra Charlotte ed Elizabeth Gaskell, mi preme sottolineare che fu una vera amicizia basata su una simpatia intellettuale. Oltretutto all’epoca della loro conoscenza Charlotte era più famosa della Gaskell, che aveva pubblicato solo Mary Barton, l’ampia notorietà le venne solo in seguito alla collaborazione di racconti pubblicati da Dickens sul proprio periodico. Sostengo ciò in quanto sono reduce da una lettura parallela di due accreditate biografie della Gaskell, quella della Uglow e quella della Gérin. A distanza di quasi due secoli possiamo ben dire che è la Gaskell ad aver costruito il suo futuro letterario attraverso Charlotte, grazie alla biografia che scrisse in seguito su di lei.

Il capitolo 16 riguarda la progressiva diffusione e affermazione delle donne scrittrici. Molto giusto l’assunto secondo cui le due Emily scrivono perché scrivere è arrivare in cima all’esistenza, un modo per rendere più profondo ciò che si vive e per proiettarsi nel tempo a venire. Nel successivo capitolo si ribadisce che Dickinson e Brontё “dicono con la penna” per isolarsi. Notevoli questi concetti: 1) In loro c’è assenza di invenzione casuale, anche se per Brontё fantasticare è termine esplosivo. 2) Brontё ha caro il regno interiore e ciò funge da auto-terapia. Il dio delle visioni è pericoloso perché può sostituirsi al giudizio, per cui fantasticare può diventare un’ossessione. 3) È doloroso pensare all’umanità come vuota e servile. L’unico antidoto alla violenza connaturata alla specie è la cultura, in particolare nella sublimazione attuabile con la scrittura percorrendo le vie della filosofia e dell’immaginazione.

Il capitolo 18 è molto importante perché stabilisce le somiglianze fra le due figure nella vita interiore in quanto solitarie, una condizione che le fa pervenire ad una dimensione vasta e irraggiungibile. Ambedue vivono per scrivere e scrivono per vivere, ma hanno bisogno di lentezza (stasi) per giungere a maturazione (acuta osservazione).

Nel Post scriptum si spiega ottimamente perché le due autrici sono immortali:

1) Sanno vedere l’assoluto fuori dalla quotidianità

2) Sono “sibille in pectore”, trasportando sulla pagina ciò che hanno sperimentato

3) La loro latenza è strategia vincente per l’immortalità

4) Astrarre dal privato rende i contenuti validi per tutti.

 

Infine, un limite per il lettore esperto o per lo studioso è l’enumerazione nella Bibliografia di testi solo italiani. Un peccato veniale a fronte di una dedizione ammirevole. Le due Emily sentitamente ringraziano.