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Siamo
nell’anno 2001; l’ispettore Floyd raggiunge una base lunare per
ispezionare un cratere in cui è stato rinvenuto un misterioso oggetto,
prova evidente dell’esistenza degli extraterrestri. Una navicella
Discovery, con a bordo due astronauti e tre scienziati ibernati, è
diretta verso Giove, per cercare di scoprire dove convergano i segnali
emanati dal misterioso monolito nero, perché forse è proprio sul pianeta
gigante che si trova l’emittente delle fortissime radiazioni.
L’astronave è guidata dagli astronauti Poole e Bowman, coadiuvati dal
calcolatore Hal 9000 (anticipatore dei moderni computer con comando
vocale), che sorvegliano anche le funzioni vitali di tre colleghi
ibernati, ma, durante il viaggio, accade qualcosa; nei circuiti del
calcolatore germina un quid di sorprendentemente umano: il computer Hal
9000, al quale è affidata la missione, si ribella, e provoca la morte di
Poole e degli ibernati.
Bowman disattiva il calcolatore e si ritrova così, unico superstite
dell’avventura spaziale, da solo nel viaggio nello spazio cosmico,
risucchiato in un aldilà dove morte e rinascita s’incontrano; infine
nel film è l’occhio di Bownman, e gli spettatori con lui, il vero
protagonista del film.
Ora Tempo e Spazio dell’avventura si condensano in immagini di
sfolgorante fascino, in visioni molteplici e laceranti, per approdare in
un interno stile rococò in cui, tra realtà e metafora, Bowman si vede
invecchiare, morire e rinascere.
E’ un utero astrale la visione finale, al cui interno si scorgono i
lineamenti incerti di un neonato che guarda prima verso la Terra e poi
verso gli spettatori, in un primo piano misterioso, sfocato, ma egualmente
terrificante.
Il film, che esordisce con un incipit indimenticabile, con gruppi di
scimmie del Pleistocene in lotta con altri gruppi di animali per la
sopravvivenza, con l’apparizione dell’alieno monolito nero in
coincidenza con l’intuizione del quadrumane che comprende di potersi
servire dell’osso di un animale ucciso come arma (l’osso lanciato in
aria, con folgorante genialità del regista, si trasforma in
un’astronave), è diviso in tre parti: l’alba dell’uomo, diciotto
mesi dopo/ missione verso Giove, e Giove e oltre l’infinito.
Fu girato nel 1968 da Stanley Kubrick questo film metafisico più che di
fantascienza, quando ancora l’uomo non era andato sulla Luna; nonostante
ciò il talento visionario del regista, affascinato dal filone
fantascientifico che affonda le sue radici nei romanzi ottocenteschi e di
Jules Verne, concepì mondi e situazioni inimmaginabili, elaborando
un’opera che, per i contenuti di alta speculazione filosofica
sull’uomo e per gli effetti speciali, resta ancora oggi insuperata.
Se si ama la fantascienza, se si è attratti dal rapporto spazio-tempo, se
si è affascinati dal metafisico e dalla speculazione filosofica, ma,
soprattutto se si ama il filone cinematografico di qualità che propone
pellicole del genere, non si può non vedere questo film che è una vera e
propria sinfonia visiva, per niente datato, né nei contenuti né negli
effetti speciali, che restano ancora oggi un puro archetipo creato da
Kubrick.
Francesca Santucci

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