Francesca Santucci

2001 Odissea nello

spazio

di Stanley Kubrick

Siamo nell’anno 2001; l’ispettore Floyd raggiunge una base lunare per ispezionare un cratere in cui è stato rinvenuto un misterioso oggetto, prova evidente dell’esistenza degli extraterrestri. Una navicella Discovery, con a bordo due astronauti e tre scienziati ibernati, è diretta verso Giove, per cercare di scoprire dove convergano i segnali emanati dal misterioso monolito nero, perché forse è proprio sul pianeta gigante che si trova l’emittente delle fortissime radiazioni.
L’astronave è guidata dagli astronauti Poole e Bowman, coadiuvati dal calcolatore Hal 9000 (anticipatore dei moderni computer con comando vocale), che sorvegliano anche le funzioni vitali di tre colleghi ibernati, ma, durante il viaggio, accade qualcosa; nei circuiti del calcolatore germina un quid di sorprendentemente umano: il computer Hal 9000, al quale è affidata la missione, si ribella, e provoca la morte di Poole e degli ibernati.
Bowman disattiva il calcolatore e si ritrova così, unico superstite dell’avventura spaziale, da solo nel viaggio nello spazio cosmico, risucchiato in un aldilà dove morte e rinascita s’incontrano; infine nel film è l’occhio di Bownman, e gli spettatori con lui, il vero protagonista del film.
Ora Tempo e Spazio dell’avventura si condensano in immagini di sfolgorante fascino, in visioni molteplici e laceranti, per approdare in un interno stile rococò in cui, tra realtà e metafora, Bowman si vede invecchiare, morire e rinascere.
E’ un utero astrale la visione finale, al cui interno si scorgono i lineamenti incerti di un neonato che guarda prima verso la Terra e poi verso gli spettatori, in un primo piano misterioso, sfocato, ma egualmente terrificante.
Il film, che esordisce con un incipit indimenticabile, con gruppi di scimmie del Pleistocene in lotta con altri gruppi di animali per la sopravvivenza, con l’apparizione dell’alieno monolito nero in coincidenza con l’intuizione del quadrumane che comprende di potersi servire dell’osso di un animale ucciso come arma (l’osso lanciato in aria, con folgorante genialità del regista, si trasforma in un’astronave), è diviso in tre parti: l’alba dell’uomo, diciotto mesi dopo/ missione verso Giove, e Giove e oltre l’infinito.
Fu girato nel 1968 da Stanley Kubrick questo film metafisico più che di fantascienza, quando ancora l’uomo non era andato sulla Luna; nonostante ciò il talento visionario del regista, affascinato dal filone fantascientifico che affonda le sue radici nei romanzi ottocenteschi e di Jules Verne, concepì mondi e situazioni inimmaginabili, elaborando un’opera che, per i contenuti di alta speculazione filosofica sull’uomo e per gli effetti speciali, resta ancora oggi insuperata.
Se si ama la fantascienza, se si è attratti dal rapporto spazio-tempo, se si è affascinati dal metafisico e dalla speculazione filosofica, ma, soprattutto se si ama il filone cinematografico di qualità che propone pellicole del genere, non si può non vedere questo film che è una vera e propria sinfonia visiva, per niente datato, né nei contenuti né negli effetti speciali, che restano ancora oggi un puro archetipo creato da Kubrick.

Francesca Santucci